L’ultimo assalto al fortino del ddl Zan è stato respinto senza registrare però ulteriori perdite. E senza neppure grandi passi avanti. In realtà si continua a prendere tempo in un stallo travestito da wrestling. La notizia del giorno è che la vera mediazione, al lavoro su tutti i fronti e lontano da occhi indiscreti, sembra aver spostato a settembre il voto finale sul ddl che punisce con nuove pene ma anche con strumenti culturali l’omotransfobia e il bullismo contro i presunti “diversi”.

Settembre non è “oggi” come una certa narrazione ha lasciato credere. E da qui a settembre possono ancora succedere alcune cose. Da qui a settembre, ad esempio, può trovare spazio il compromesso. Che poi è il senso dell’ultimo appello del leader di Italia viva ieri al Senato poco prima del voto sulle pregiudiziali di costituzionalità: «Facciamo qui adesso le modifiche che possono allargare il consenso su questa legge, metterla al riparo da voti segreti e per approvarla in quindici giorni in via definitiva alla Camera». Diversamente, ha ricordato Renzi, il rischio è che «anche questa volta, come già successo al ddl Scalfarotto, restino una volta di più senza tutele». Un appello analogo, «per approvare tutti insieme il ddl Zan», è stato rivolto poco dopo dal senatore Salvini. «Perché non ha usato le stesse parole quando ha firmato l’accordo con Orban.…», gli è saltata alla gola la senatrice De Petris.

Ieri sera, dopo una giornate sulle barricate («incontro di wrestling con botte finte» lo ha definito Davide Faraone, capogruppo di Iv) sono state votate le pregiudiziali di costituzionalità presentate da Lega e Fratelli d’Italia. Forza Italia si è accodata con convinzione. Il tabellone elettronico ha consegnato un verdetto che mette in minoranza le destre visto che Italia viva ha votato contro le pregiudiziali bocciate con 136 No e 124 Sì. Sono numeri che parlano chiaro: i 17 senatori di Italia viva sono decisivi; i 4 astenuti sono altrettanti messaggi che chiedono di mediare; tra i No (136) e i Sì (124) ci sono solo 12 voti di scarto (che già ieri sera potevano diventare otto), troppo pochi per affrontare con serenità i voti segreti. La battaglia dunque continua. La capigruppo ha fissato alle 12 di martedì 20 il termine tecnico per presentare gli emendamenti. Solo allora si potrà capire con chiarezza il destino e i tempi del ddl Zan. «Faremo di tutto per evitare di arrivare a settembre» ha messo le mani avanti il capogruppo M5s Ettore Licheri. Il punto è che, al netto di una pausa estiva non ancora fissata, l’assemblea del Senato dovrà esaminare e votare circa sei decreti entro il 20 agosto. Un calendario molto fitto dove è difficile trovare posto.

La giornata è stata all’insegna del muro contro muro. Che non è mai utile su un tema come quello dei diritti civili. Ed è una ferita pericolosa in un governo di (quasi) unità nazionale che ha in agenda dossier economici urgenti. Almeno tanto quanto quelli della protezione delle persone transgender e omosessuali. Nel primo pomeriggio la Commissione Giustizia si è risolta con un nulla di fatto: il presidente Andrea Ostellari (Lega) ha provato a mettere ai voti un supplemento di tempo per i lavori in Commissione «per arrivare ad un testo condiviso». Respinto con perdita. Mentre i senatori passavano dalla Commissione all’aula, un paio di senatori di Forza Italia mostravano segni di insofferenza: «Se Pd e M5s vogliono per forza andare al voto, se la mettono sul piano dell’obbligo etico, poiché non è così, allora rischiano di perdere già nel voto sulle pregiudiziali. Perché diventa solo una questione di propaganda e demagogia». Non buono per un gruppo parlamentare che dovrebbe essere tra i più facili da convincere sulle buone ragioni del ddl Zan. Nei minuti che hanno preceduto l’aula hanno iniziato a girare sulle chat dei vari gruppi previsioni di numeri poco rassicuranti: 11 assenze tra i banchi del Movimento, tra i renziani, uno del Pd. Quindici mal di pancia che avrebbero potuto pregiudicare per sempre la legge già nelle votazioni sulle pregiudiziali di costituzionalità visto che, verbali alla mano, la maggioranza si gioca su uno scarto di 10-15 voti.

Alle 16 e 30 è iniziata l’aula. E il clima di scontro ha preso subito il sopravvento. «Gli Europei li abbiamo già vinti, non voglio tifoserie in questa aula» ha provato ad abbassare i toni la presidente Casellati. Senza successo. Perché l’intervento in apertura di Ostellari ha mandato fuori dai gangheri Pd, Leu e 5 Stelle, il blocco parlamentare di quelli che vogliono approvare subito il testo e farlo diventare legge dello Stato. E chissenefrega se si apre una frattura nel governo Draghi. Letta lo ha detto chiaramente: «Il Pd non accetta ricatti. Noi andiamo avanti». Draghi ha lasciato la parola al Parlamento chiamando fuori il governo da ogni fibrillazione nei numeri della maggioranza. È il Parlamento che deve autoregolarsi. Non successe così, purtroppo, ai tempi del governo Gentiloni e della legge sulla cittadinanza per gli stranieri.

Una volta in aula Ostellari ha raccontato una storia diversa rispetto a quella di Pd e M5s («non è vero che tengo il testo bloccato da nove mesi») e ha chiesto un nuovo invio in Commissione e «due settimane di tempo per trovare la necessaria mediazione». Casellati aveva già convocato la capigruppo per definire la tempistica della discussione. A maggior ragione per provare a mediare una volta di più. Ma è stata letteralmente travolta dalle rimostranze di Pd e M5s. «Basta giochi politici» ha attaccato Mirabelli (Pd). «Lei non deve e non può consentire lo scempio di un rinvio» l’ha azzannata all’ugola l’ex presidente del Senato Piero Grasso. Il gruppo delle Autonomie e Italia viva hanno chiesto a tutti «un passo indietro per farne insieme uno avanti». «Basta con queste guerre che fanno solo del male alle persone che vogliamo proteggere» è stato l’invito della senatrice Unterberger, «si può ben rinunciare ad una parola (in questo caso “identità di genere” ndr) se si può vincere lo stesso tutelandone il concetto». Wrestling (copyright Faraone), appunto. La mediazione può ancora andare avanti.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.