Non sarà stata una semplice visita, era imprevista e fuori da ogni protocollo. È come se i massimi esponenti del governo del tempo fossero entrati nella Bolzaneto o nella Diaz dalle mura e dai pavimenti imbrattati di sangue. La presenza di Draghi e della Cartabia tra i detenuti di Santa Maria Capua Vetere assume un valore simbolico e politico di una certa importanza e non sembra un atto di mera circostanza.

Non deve essere stato facile aggirarsi tra le rovine della Ground Zero della politica penitenziaria italiana; nel luogo in cui è stato infranto l’ultimo diaframma tra la tutto sommato accettata percezione collettiva del carcere come luogo del disagio e del sovraffollamento e la denuncia inascoltata di una condizione di generalizzata sopraffazione.
Come il G8 di Genova ha marcato la latitanza e l’impreparazione dei capi dell’ordine pubblico nel controllare la violenza di strada, così la mattanza di Santa Maria Capua Vetere ha disvelato i contorni di una coabitazione tra detenuti e agenti penitenziari precaria, fragile, incline al conflitto al primo cenno di reazione e di protesta, un pentola in ebollizione. Uno stato di belligeranza che immagini e testimonianze dell’inchiesta penale hanno restituito agli occhi della pubblica opinione in tutta la loro crudezza e in tutti i suoi inevitabili gesti di abbrutimento e di umiliazione. La presenza dello Stato tra quelle mura non ha, quindi, il solo significato di una, pur tardiva, riparazione ai torti subiti, ma segna il visibile impegno delle istituzioni pubbliche affinché “mai più” possa ripetersi quel che è accaduto.

Perché questa promessa possa avere un seguito sono indispensabili condizioni che, tuttavia, sono solo in parte nelle mani del premier e del suo più prestigioso ministro. Ricondurre la dimensione carceraria alla sua prospettiva rieducativa e riabilitativa esige, in primo luogo, che sia drasticamente contenuta la custodia cautelare. Troppi detenuti restano, troppe volte per anni, in attesa del completarsi del loro lungo iter processuale e durante questo tempo sono totalmente esclusi dalle prospettive del reinserimento che vengono riservate ai definitivi, ossia a coloro i quali scontano condanne passate in giudicato.

Una massa enorme di persone si trovano recluse con la sola speranza di poter usufruire di qualche attenuazione del regime custodiale da parte dei giudici e su questa massa, soprattutto quando si tratta di presunti appartenenti a organizzazioni malavitose, la pressione dei pubblici ministeri e delle forze di polizia è enorme. L’intercettazione dei colloqui con i familiari e, non poche volte, anche di quelle con i difensori, il controllo della corrispondenza, le limitazioni nell’accesso ai beni di uso quotidiano, la promiscuità di celle, le perquisizioni personali spesso umilianti sono tutti fattori che alimentano un risentimento e una rabbia che a stento gli apparati di controllo riescono a tenere a bada. È solo la speranza di uscire, la volontà di ubbidire per non precludersi quale spiraglio di libertà a mantenere un certo ordine nelle carceri italiane e in quelle ad alta e massima sicurezza innanzitutto.

Siamo un paese in cui si commina il carcere duro (il 41-bis per capirci) a chi è stato appena arrestato perché additato come un boss o un gregario pericoloso o solo perché appare il ventre molle su cui posare i bisturi della restrizione per eviscerare verità appetibili per gli inquirenti. Tutto questo, forse, a occhio e croce poteva avere un barlume di senso negli anni della grande emergenza criminale, nei tempi bui che seguirono alle stragi quando, si sussurra – a bassa voce – cose terribili siano accadute negli istituti di massima sicurezza dove erano ristretti capimafia e picciotti. Ma oggi, alla vigilia di una svolta politica e istituzionale che si profila importante per i destini del paese, è indispensabile che si restituisca serenità alla popolazione carceraria e alla polizia che la vigila. Una volta si chiamavano agenti di custodia e quella parola aveva un significato deteriore che si è voluto dismettere. Ma proprio agenti di custodia essi sono perché chiamati a custodire l’integrità fisica e morale dei detenuti loro affidati e non a trasformarsi in propaggini degli inquirenti a caccia di propalazioni, di confessioni e di pentiti.

Ecco il primo punto che dovrebbe impegnare il premier e il ministro è proprio quello di isolare totalmente la dimensione carceraria dalle esigenze di sicurezza che provengono dall’esterno e dalla pressione degli investigatori, restituendo alle mura penitenziarie quella dimensione di intimità, di sobrietà, di riflessione che subisce le quotidiane e massicce scorrerie di quanti considerano invece il detenuto una fonte da spremere, da controllare minutamente, da scandagliare in ogni sua dimensione interiore per indurlo alla resa. È necessario, forse, che il carcere recuperi la propria neutralità rispetto all’aspra e giusta contesa che fuori di esso vede contrapposti inquirenti e delinquenti. Per farlo è necessario anche che il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sia alleggerito della presenza di tanti, pur autorevoli, pubblici ministeri e protagonisti dell’antimafia, inevitabilmente proclivi ad accogliere le istanze antagoniste e securitarie che provengono dai loro colleghi che operano fuori dalle mura.

Costoro consegnano, per la loro stessa provenienza professionale, alla popolazione penitenziaria un’immagine non coerente con la terzietà che sarebbe richiesta al custode del corpo in cella. Il ché non vuol dire che il carcere debba essere sottratto al controllo dello Stato con il pericolo di trasformarsi nell’Ucciardone di antica memoria, ma è indispensabile che le restrizioni siano solo ed esclusivamente orientate in direzione di questo obiettivo senza dilatarsi verso esigenze diverse che hanno visibilmente avvelenato i pozzi della convivenza e della civiltà.