La decisione dei Questori di Camera e Senato sulle modalità di votazione per il Quirinale in tempi di pandemia ha eluso il nodo principale: quello del voto dei grandi elettori contagiati o comunque confinati in applicazione della normativa anti-Covid. Una “non-decisione” che rischia di diventare una decisione definitiva se non si tornerà sul problema. Stando così le cose infatti decine di parlamentari e delegati regionali potrebbero essere esclusi dalla decisione forse più importante per il buon funzionamento delle nostre istituzioni: l’elezione del Presidente della Repubblica, che resterà in carica per sette anni.

La questione, che dovrebbe essere considerata come di natura essenzialmente tecnica, è invece uno dei tanti nodi politici che riguardano l’intricata matassa della successione a Quirinale. Ci sono due ragioni per cui essa si è trasformata in una questione politica. La prima è che serpeggiano tra i partiti calcoli sulla convenienza che, alle votazioni, partecipino, o, meno un cospicuo numero di elettori “confinati”. Il secondo motivo è la paura che qualsiasi decisione che consenta di sciogliere questo nodo possa essere additata come l’ennesimo privilegio che la casta accorda a se stessa, a dispetto dei cittadini comuni. E non considero, per carità di patria, la saldatura delle due questioni. E cioè, la posizione di coloro che agitano pretestuosamente la paura delle piazze semplicemente per rafforzare le proprie valutazioni di convenienza. Prima di entrare nel merito, una amara considerazione generale. Entrambe queste motivazioni politiche non fanno onore alla… Politica e sono anzi l’indicatore più evidente della sua disperata e disperante debolezza.

La ricerca di mezzucci per avvantaggiare le proprie posizioni o la subalternità agli umori (presunti) della piazza come criteri per orientare decisioni che incidono sulla vita dello Stato è preoccupante e fa capire perché demagogia e populismo abbiano trovato terreno così fertile nel nostro paese. La dote dei politici dovrebbe essere, in una democrazia sana, proprio la capacità di guida e l’assunzione di responsabilità. Soprattutto quando le scelte sono più che giustificate. E in questo caso lo sono massimamente. L’errore di fondo sta proprio nella premessa di tutto il discorso. Votare per l’elezione del capo dello Stato non è un privilegio di casta, ma è innanzitutto l’adempimento di un dovere costituzionale che i Parlamentari (e i delegati regionali) hanno assunto al momento della propria nomina. Certo quel dovere sarà adempiuto esercitando liberamente un diritto e un potere, ma ciò non toglie che adempiere alle funzioni sia innanzitutto un dovere. Come insegna la civiltà giuridica dall’epoca più antica, l’ufficio pubblico è innanzitutto un munus cioè un impegno, un dovere, un compito. E il fatto che a quel munus sia associato (come nell’etimologia latina) un “dono”, cioè la titolarità di un potere, non fa di questo automaticamente un privilegio. Anzi il privilegio si ha proprio nel momento in cui quel “dono” è svincolato dal dovere, è “rubato” alla sua funzione e diviene un modo per soddisfare gli appetiti del singolo.

Paradossalmente, l’indignazione da temere non è quella dei cittadini che si potrebbero scandalizzare per il fatto che vengano prese misure speciali per consentire ai rappresentanti di adempiere ai propri doveri d’ufficio, ma semmai quella opposta. Consentire di sottrarsi ai compiti istituzionali (o non fare di tutto perché essi possano essere adempiuti), questo dovrebbe suscitare indignazione. Perché, sia detto chiaramente, non ci sono ragioni tecniche per impedire che i grandi elettori, che siano asintomatici, paucisintomatici o “contatti stretti“, possano essere messi in condizione di partecipare alle votazioni. Soprattutto a queste, così decisive per la vita dello Stato. Bastano regole parlamentari e norme eccezionalmente derogatorie del regime del confinamento. Si fanno, e necessariamente, decreti-legge a raffica. Forse anche in questo caso bisognerebbe pensarci.

Uno dei ritornelli della retorica populista a cui abbiamo assistito in questi anni è quella che dipinge i parlamentari come i “nostri dipendenti” cui siamo noi a “pagare lo stipendio”. Beh, bisognerebbe ricordare a questi sacerdoti dell’etica pubblica – di cui la politica teme (o finge di temere) gli strali – che noi li paghiamo anche per muoversi e andare a votare per il Capo dello Stato. Se, in una situazione del genere, la politica non avesse un sussulto e continuasse a lucrare su stratagemmi e presunti (o reali) timori della piazza, non solo si dimostrerebbe drammaticamente inadeguata, ma confermerebbe tutti gli stereotipi di furbizia che l’hanno ridotta in questa situazione.