Il caso
Fontana si difende ma con la donazione nasce il pasticcio e qualche bugia
Il reato di frode in pubbliche forniture non c’è, pare proprio pretestuoso. Tanto che un avvocato di lunga esperienza come Jacopo Pensa lo definisce “fumoso”. E se non aleggiasse lo spettro dei pubblici ministeri che in Lombardia stanno indagando ormai su qualunque episodio anche minimo che riguardi la Regione e la Lega in particolare, i sessantacinque minuti, interrotti da sei scrosci di applausi, del governatore Attilio Fontana sarebbero stati ieri un suo successo personale e politico. Perché nel suo discorso, iniziato col parlare delle polemiche «sterili inutili strumentali e lesive», e terminato con la rivendicazione dell’autonomia e della forza delle Regioni («che cosa sarebbe successo se non ci fossero state le Regioni ad affrontare l’emergenza sanitaria» in questi mesi?), il governatore ha lanciato in aria il Grande Orgoglio: «La Lombardia è libera e come tale va lasciata». Il che gli ha fatto guadagnare il settimo applauso, prolungato e appassionato, con grande sventolio di bandiere con la rosa camuna che rappresenta la regione.
Un applauso solo della sua maggioranza però, benché l’orgoglio dei cittadini della “locomotiva d’Italia” e la sensibilità sull’autonomia, a partire da quella fiscale, riguardi e appassioni tutti, di ogni parte politica. Neppure il Movimento cinque stelle, che pure voleva proporre la mozione di sfiducia nei confronti del Presidente e della giunta, da queste parti ha l’abitudine di attentare alla giugulare degli avversari politici (al contrario del segretario provvisorio Vito Crimi, che interviene con l’accetta). E il capogruppo del Pd in Regione Fabio Pizzul, è un gentiluomo che fa il paio con Attilio Fontana. Fair play lombardo. Ma oggi è un altro giorno. E lo si è visto ieri, nei sessantacinque minuti di un Fontana appassionato, questo sì, ma anche colpito dall’aver appreso a mezzo stampa di esser iscritto sul registro degli indagati. Come avvocato non dovrebbe manifestare nessuno stupore, chi non conosce certe abitudini del circo mediatico-giudiziario? Ma lui è conosciuto a apprezzato da tutti come una sorta di cavaliere senza macchia, rampollo di buona famiglia varesotta, genitori medici, buoni studi e quella gentilezza innata che non lo fa somigliare in nessun modo al prototipo del leghista ruspante e un po’ ruvido di modi.
«Non posso tollerare che si dubiti della mia integrità e di quella della mia famiglia». Lo dice quasi con un singhiozzo, mentre scoppia l’applauso e lui alza finalmente gli occhi dal foglietto che stringe con risolutezza tra le mani, che non lascia mai, mentre parla in piedi. Già, la dignità. E la famiglia, croce e delizia di ogni politico, un pesante zaino che ti porti sulle spalle e che ti può azzoppare in un soffio, per un innocente orologio che hanno regalato a tuo figlio, per un fidanzato chiacchierone o per rampolli sconsiderati che spendono e spandono. O anche per un cognato. A volte essere parenti può portare svantaggi. Perché le famose «ragioni di opportunità», che in genere vengono usate dai finti garantisti per nascondere i propri istinti forcaioli, dovrebbero indurre uno spontaneo ritrarsi, magari mangiandosi le mani dalla rabbia, un rinunciare a qualunque rapporto di tipo commerciale o anche professionale con il parente che occupa un posto di responsabilità. Così, quando si era nell’emergenza disperata perché non si trovavano mascherine né altri presidi sanitari mentre il virus impazzava in Lombardia, e l’assessore lombardo Raffaele Cattaneo aveva trovato cinque aziende tessili pronte a riconvertire la propria produzione, sarebbe stato preferibile che una delle cinque non fosse stata di proprietà del cognato del Governatore. E sarebbe stato meglio, quando lui l’ha saputo (il 12 maggio, come lui dice ora, contraddicendo quel che aveva detto ai primi di giugno, ma non è così importante), se gli avesse suggerito di ritirarsi. E non di fare il pasticcio della donazione, con tutto quel che ne è conseguito.
Una cosa pare chiara, e Fontana lo ha ricordato ieri in Consiglio regionale: non c’è mai stato un problema di gare, lo stesso governo aveva autorizzato procedure semplificate, come si fa, persino per ricostruire un ponte, quando c’è una grave situazione di emergenza. Inoltre, ripetiamo, le aziende che hanno venduto i loro prodotti alla Regione Lombardia oltre alla Dama del cognato erano quattro. Nessun rapporto privilegiato tra parenti, dunque. Le cose si sono ingarbugliate perché l’imbarazzo, dopo che la Dama aveva trasformato il contratto di compravendita in donazione, ha prodotti pasticci e qualche bugia. In cui si è inserita la trasmissione “Report”, che quanto a travaglismo non è seconda a nessuno. Ognuno con le sue date e le sue competizioni, che sembrano quelle dei bambini maschi quando si sfidano a chi ce l’ha più lungo. E c’è un altro particolare, cui a quanto pare potrebbero essersi attaccati i pubblici ministeri, guidati dal quel Romanelli di Magistratura Democratica cui non è ancora andato giù lo smacco subito dal Consiglio di Stato che gli ha preferito una collega all’Antimafia, benché il Csm avesse scelto lui, che era appoggiato da Palamara.
Questo particolare, ipotizza l’avvocato Jacopo Pensa che assiste Attilio Fontana pur non avendo in mano nessun documento che attesti la sua iscrizione sul registro degli indagati, è nei numeri dei capi consegnati da Dama alla Regione. Perché nel contratto si parlava di 75.000 camici, mentre ne furono donati solo 50.000. Gratis, ma non tutti. Una sorta di inadempienza che comporterebbe il reato di frode. Ma frode su una donazione? E che cosa c’entra Fontana? Potrebbe non entrarci il governatore Fontana, tranne il fatto che, proprio perché è una brava persona, finisce con l’ingarbugliarsi ancora di più. E pensa di risarcire il cognato per il mancato guadagno versandogli la metà, duecentocinquantamila euro, di quanto avrebbe incassato vendendo i 50.000 camici. In questo modo il Presidente avrebbe finito con il donare una bella cifra alla Regione da lui guidata. Cosa che non è accaduta (ma accadrà nel prossimo futuro, ne siamo certi) perché Fontana, invece di staccare un assegno di un proprio conto di qualche banca varesina o milanese, ha usato un conto svizzero con fondi “scudati” ed ereditati dalla madre. Il che ha fatto scattare le norme antiriciclaggio, vista la cifra e visto da chi proveniva, cioè un personaggio pubblico. E subito dopo i pm hanno rizzato le antenne.
Ossignur, si direbbe a Milano, ma ci può essere qualcosa di “normale” in questa storia? E’ facile previsione che non finirà qui. Fontana ieri sul piano politico, e anche amministrativo, si è difeso bene. Ha documentato il fatto che la Regione non ha rimesso denaro e che tutto è rendicontato, dei 365 milioni spesi per i presidi sanitari e quanto serviva agli ospedali per fronteggiare il virus. Ha difeso la costruzione dell’ospedale in Fiera, nato con fondi privati nel momento in cui le terapie intensive degli istituti pubblici e privati lombardi erano al collasso. Ha ricordato l’alta reputazione della Regione Lombardia e della sua sanità. Ma ora dovrà pensare a se stesso. Perché la responsabilità penale è personale. E perché, anche se per il famoso “circo” il boccone grosso sarebbe Salvini, agitare un paio di manette sul naso del governatore della “locomotiva d’Italia” è un colpo da non sottovalutare. Anche se il reato non c’è.
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