Sta per tornare in scena
Gianfranco Fini sta tornando, dopo 10 anni l’ex leader di AN riappare in pubblico
Si allunga, seppur sfumata, l’ombra di Gianfranco Fini sul successo politico della premier Giorgia Meloni. Chiariamo subito: la leader di Fratelli d’Italia e del centrodestra è allieva di tanti e di nessuno e se è certamente vero che non farà mai “la cheerleader di nessuno” è anche vero che è una che ama ascoltare e imparare. E conosce il valore della riconoscenza, merce rara in politica.
Gianfranco Fini, al di là dei percorsi individuali, ha intravisto subito nel 2001 le potenzialità di quella giovane che, a 24 anni, nominò coordinatrice di Azione Giovani, l’organizzazione giovanile di An, rompendo già allora il tabù di essere la prima dirigente donna del partito. Nel 2006, alla sua prima legislatura, sempre Fini la volle vicepresidente della Camera e nel 2008 ministra della Gioventù nel terzo governo Berlusconi. A destra Gianfranco Fini ha esplorato nuove strade, non è stato compreso ed è caduto. Tradito più dai suoi che dagli avversari politici. Succede quasi sempre così: la congiura è sempre più clamorosa del regolamento di conti tra avversari. Se Giorgia Meloni si affidasse anche ai consigli del suo primo mentore, sarebbe solo indizio di autonomia e libertà. Cosa, peraltro, che lei rivendica in ogni suo intervento. Il diretto interessato, Fini, nega tutto.
Domenica sarà però ospite di Lucia Annunziata a Mezz’ora in più, un invito su cui ha ragionato molto se accettare o meno. Possiamo immaginare con il via libera della premier. L’ospitata di Fini è un segnale preciso di un suo ritorno sulla scena. Non politica ma pubblica.
Non è l’unico indizio. Se ne possono mettere in fila molti. Il pomeriggio del 3 ottobre Fini comparve alla Stampa estera – invitato dal vice presidente, un giornalista tedesco – a parlare dell’Italia dopo il 25 settembre, dopo la vittoria della destra e di Giorgia Meloni. Uno dei padri della destra italiana, l’unico e il primo che ebbe il coraggio di fare i conti con la Storia e il nazifascismo, selezionato come la voce migliore da ascoltare in quelle ore in cui la “deriva fascista” sembrava il destino inesorabile dell’Italia del dopo Draghi. Sembrò una cosa strana, inedita. “Nelle chat di Fratelli d’Italia non si dà alcun peso a questo incontro” fu il commento quella sera nei vari staff del partito.
Nei giorni successivi – siamo ancora nelle tre settimane accidentate precedenti l’elezione dei presidenti di Camera e Senato – si parlò con insistenza del fatto che Giorgia Meloni stesse lavorando “ad una seconda Fiuggi”. Ad un secondo tempo di quel lavoro di analisi e assunzione di responsabilità con la Storia necessario per poi vivere il presente e immaginare il futuro. Operazione che la destra italiana, quella liberale e moderna, iniziò a fare con Fini ma che poi fu strozzata dalle dinamiche interne di An, dei nostalgici del Msi e anche di altro. Il secondo tempo di quell’analisi – difficile e probabilmente anche costosa in termine di consenso – è avvenuta martedì mattina quando Giorgia Meloni ha pronunciato il suo intervento “programmatico” in Parlamento.
«Non ho mai provato simpatia o vicinanza nei confronti dei regimi antidemocratici; per nessun regime, fascismo compreso, esattamente come ho sempre reputato le leggi razziali del 1938 il punto più basso della storia italiana, una vergogna che segnerà il nostro popolo per sempre». Non ha la forza di quello che disse Fini per la prima volta nel gennaio 1995, al primo congresso di An: «È giusto chiedere alla destra italiana di affermare senza reticenza che l’antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato». O di quanto sempre Fini disse nel 2003 in vista ufficiale in Israele come presidente della Camera: “Il fascismo è il male assoluto”. Però se si mettono in fila, possono essere i tre tempi che chiudono la partita della destra con la sua storia.
Altri indizi dell’ombra lunga di Gianfranco Fini sul governo Meloni spuntano fuori in serie analizzando gli eletti e la squadra di governo. Tre nomi su tutti: il senatore Roberto Menia, il ministro Adolfo Urso (Mise e Made in Italy), Alfredo Mantovano, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Menia e Urso seguirono Fini nella diaspora dalla Casa delle Libertà e nell’avventura politica di Futuro e Libertà. Mantovano era già fuori ma sempre nell’orbita di Fini. Il processo in cui è rimasto coinvolto l’ex leader della destra è fermo in una palude. Dieci anni sarebbero un tempo sufficiente per immaginare un suo ritorno. Al momento presiede l’Associazione culturale Liberadestra.
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