Giorgia è a un passo dal realizzare il sogno proibito di Giorgio, ma anche di Giancarlo e un po’ persino di Arturo. S’intendono Almirante, Fini ma anche il dimenticato Michelini e il miraggio è quello di rendere il partito situato all’estrema destra del quadro politico italiano, comunque decida di chiamarsi, tanto forte da competere per il primo posto nelle urne, affrancato compiutamente dalle tare ereditarie che blindavano i cancelli se non del governo almeno di palazzo Chigi.

Il bello è che quando il 26 dicembre 1946 una decina di ex fascisti repubblichini, nello studio dell’avvocato Michelini in viale Regina Elena a Roma, diedero vita al Msi, Movimento Sociale Italiano, erano convinti che il traguardo fosse a portata di mano, appena dietro l’angolo. Erano sicuri che gli italiani fossero rimasti intimamente fascisti. Consideravano il 25 luglio e l’8 settembre colpi di Stato effettuati dall’élite monarchica sulla testa del popolo littorio che non avrebbe esitato a rialzare entusiasta il braccio destro nel saluto romano appena ne avesse avuto la possibilità. Gli scontri dottrinari violentissimi tra la sinistra “saloista” di Giorgio Almirante, il primo segretario, e i moderati “nazional-conservatori” di Michelini e Augusto De Marsanich, erano tanto accesi perché i missini non pensavano solo di dibattere sull’opportunità o meno di allearsi con le altre formazioni di destra, in particolare monarchiche, o sull’appoggio alla Nato, contro la quale si schierarono nel 1949. Erano convinti, come nota Nicola Rao nella sua bella storia storia della destra italiana Trilogia della celtica, di star prefigurando i connotati di un futuro e imminente Stato neofascista.

Del resto anche solo la decisione di partecipare al gioco democratico era stata sofferta e contrastata. La galassia dei reduci, subito dopo la guerra, aveva puntato su formazioni clandestine, tra le quali la principale erano i Far, i Fasci di azione rivoluzionaria. L’idea di accettare le regole dell’odiata democrazia disgustava moltissimi e a sciogliere d’autorità il nodo fu in dorata solitudine Pino Romualdi, ex segretario del Pnf e allora figura più autorevole del neofascismo: decise da solo la fondazione del partito. Ma i militanti più duri mantennero inalterata la doppia appartenenza: missini alla luce del sole, “faristi” clandestini al calar delle tenebre. I sogni di gloria furono dissipati impietosamente nelle elezioni del 1948: il Msi non andò oltre il 2% e i reduci scoprirono di colpo che il mondo diviso in blocchi contrapposti non era quello che avevano conosciuto e s’imponevano di conseguenza scelte ben diverse dal vagheggiato purismo “nazional-rivoluzionario”. Tempo un paio d’anni e si spostarono a favore della Nato, incalzati addirittura dal mitizzato eroe di guerra Junio Valerio Borghese, ex comandante della X Mas e atlantista convinto. De Marsanich sostituì Almirante alla segreteria, la politica delle alleanze a destra fu completamente ripensata con risultati brillanti: l’asse Msi-monarchici conquistò alle amministrative del 1952 sei città importanti del sud, incluse Napoli e Bari, e nel Meridione volò sino all’11,8%.

Per sorella Giorgia è un precedente poco rassicurante. L’anno successivo, alle elezioni politiche, il Msi dimezzò i voti: 5,8%. Potrebbe trattarsi di un caso isolato dovuto alle specifiche circostanze di quelle elezioni. Si votava con la legge-truffa, se la coalizione che faceva perno sulla Dc avesse superato il 50% dei voti avrebbe ottenuto il 65% dei seggi in Parlamento. La sfida era tanto all’ultimo voto che Giulio Andreotti, il 3 maggio 1953, non esitò a scandalizzare il Paese facendo salire sul palco, in un comizio ad Acinazzo, Ciociaria, Rodolfo Graziani, ex governatore della Libia, ex ministro della Difesa di Salò, l’uomo che nella campagna d’Etiopia aveva ordinato l’uso dei gas vietati dalle convenzioni internazionali. Il Divo spiegò al maresciallo che votare Msi significava “oggettivamente” fare un favore ai rossi. L’ospite riconobbe che bisognava “dare atto alla Dc della grandiosa opera svolta per far rinascere la nostra patria”. Insomma, l’emorragia di voti neofascisti potrebbe essere spiegabile.

Solo che il fattaccio si ripetè agli inizi degli anni ‘70, in circostanze ben diverse. In mezzo c’era stata la lunghissima segreteria Michelini, il segretario che aveva “normalizzato” il Msi allontanandolo di fatto se non di nome dalle radici in orbace: “Mi ci vedete nei panni nel duce?”, ironizzava. Arrivato alla segreteria nel ‘54 con l’appoggio anche di Almirante, aveva avuto uno scontro durissimo con gli almirantiani due anni dopo, nel congresso di Milano. Botte da orbi, accuse di brogli strillate a voce altissima. I moderati avevano vinto per 7 voti, contestati dagli sconfitti. I duri avevano abbandonato il partito. Il Msi si era rassegnato di fatto al ruolo di “partito-ascaro” della Dc e le cose erano peggiorate dopo la rivolta del luglio ‘60, che aveva portato alla caduta del governo Tambroni, quello che si teneva in piedi grazie ai voti missini. Era nata lì la formula “arco costituzionale”: significava più o meno tutti legittimati tranne il Msi. Dogma da prendere con le pinze. Quando servivano, come nel caso delle elezioni dei presidenti della Repubblica Segni e Leone o in molte amministrazioni locali, i voti missini olezzavano comunque di mughetto. Ma il ruolo degli eredi di Salò era sempre e comunque quello poco gratificante dei portatori d’acqua.

Nel 1969, morto Michelini, Giorgio Almirante era arrivato alla segreteria. L’anno prima si era occupato personalmente di riportare all’ordine i giovani neofascisti tentati da fantasie rivoluzionarie e terzaforziste, quelli che campeggiano nelle foto della famosa “battaglia” fra studenti e polizia di Valle Giulia. La spedizione missina contro l’università occupata del marzo 1968, capeggiata proprio da Almirante, aveva in realtà l’obiettivo di colpire e domare quelle spinte considerate dal partito ambigue e inaccettabili. Tanto carismatico e fascinoso (quanto il predecessore era stato anonimo), grande oratore, dotato di intelligenza politica tagliente e lucida, Almirante puntò subito forte. Voleva un Msi di massa e allo stesso tempo legittimato a governare. Scommetteva su un doppio registro: da un lato la piazza, in particolare quella di Reggio Calabria incendiata dalla più lunga rivolta urbana nell’occidente del dopoguerra, dall’altro il “doppio petto”, l’accordo con i monarchici che portò nel 1972 all’unificazione e alla nascita della Destra Nazionale, la proposta di una destra radicale ma anche istituzionale.

Le amministrative del 1971 furono un trionfo: 13,6%. Ma già nelle politiche dell’anno successivo, proprio come era successo due decenni prima e nonostante l’unificazione, i voti scesero calarono all’’8,7%. Pur sempre un record ma durò poco: nel 1976 il 6.10%, nel 1979 il 5,26%. Nonostante le innegabili doti, la scommessa di Almirante fu persa una volta per tutte in quegli anni. La posta in gioco era trarre il Msi fuori dal ghetto, o “dalle fogne”, come preferivano dire i cortei antifascisti di quegli anni. Non ci riuscì. Tenere insieme gli scalmanati della piazza e i benpensanti del doppio petto si rivelò impossibile. Quando nel 1987 la malattia costrinse il leader a passare la mano incoronando il suo delfino, Gianfranco Fini, nel partito si aprì una lotta che portò il leader della destra radicale Pino Rauti a scalzare Fini nel ‘90 per essere poi di nuovo disarcionato dal pupillo di Almirante l’anno successivo. Nel frattempo il Msi aveva perso metà dei voti nelle amministrative e nelle regionali siciliane, vegetava intorno al 5% in tutte le elezioni politiche, contava poco più di zero, il portavoce del segretario, Francesco Storace, era costretto a implorare i giornalisti a ogni conferenza stampa per evitare il deserto.

San Silvio fece il miracolo. Lui e una mossa politicamente geniale che Fini, uomo notoriamente molto prudente, si fece convincere ad azzardare solo con gran fatica: la candidatura a sindaco di Roma nel 1993, contro Rutelli. Perse ma con quasi il 47% dei voti al ballottaggio e con l’appoggio di un Berlusconi non ancora “sceso in campo” ma che scelse proprio quell’occasione per annunciare di fatto il suo imminente e terremotante arrivo. “Sdoganato” dagli elettori e dal signore d’Arcore, Fini seppellì in tempi fulminei il Msi, battezzò il nuovo partito Alleanza nazionale, arrivò al governo e poi alla presidenza della Camera, toccò il picco del 15,7%, massimo storico, nelle elezioni del 1996.

Alla fine anche Fini ha perso la sua scommessa. Il distacco dalle radici, inizialmente essenzialmente cosmetico e opportunista ma poi sempre più sentito, finì per inimicargli una parte sostanziosa della sua base. La normalizzazione rese indistinti i confini tra la sua An e il partitone di Berlusconi che nel 2007, senza neppure scomodarsi a convocare una conferenza stampa, annunciò da un predellino d’auto l’annessione, sotto forma di nuova formazione politica, il Popolo delle Libertà. Fini provò a rovesciare il tavolo sfiduciando lo storico alleato e perse per un pugno di voti comprati al mercato di Montecitorio. Ma anche se ce l’avesse fatta la sfida di An sarebbe stata persa lo stesso.

Ora tocca a Giorgia e alla sua FdI, e c’è una marcata ironia nel fatto che il colpaccio possa riuscire proprio a un partito nato come una sorta di “Rifondazione missina”, con la missione di riaccendere quella fiamma tricolore che, inventata a suo tempo proprio da Almirante e mantenuta nel logo di An era poi scomparsa e campeggia oggi nel simbolo del più forte partito della destra italiana. All’esordio, nel 2013, FdI prese la stessa percentuale del primo Msi nel 1948: 2%. Cinque anni dopo non andava oltre il 4,2%. Miracolata da una legislatura ubriaca, da un valzer delle alleanze impazzito, Giorgia Meloni guida oggi la destra e ha ottime probabilità di vincere le prossime elezioni. Se riuscirà a evitare la trappola che ha stroncato le ambizioni di Almirante e Fini: l’incapacità di uscire dal ghetto del radicalismo di destra senza per questo sacrificare la propria identità. Sembra facile. Non lo è affatto.