Fenomenologia della Meloni
“Sono un underdog”, perché la Meloni si è autodefinita così e cosa vuol dire il termine inglese
Finalmente il sangue di San Gennaro si è sciolto: non sono fascista, le leggi razziali del 1938 sono state il punto più basso della storia d’Italia, detesto tutte le tirannie, fascismo compreso. Così disse fra l’altro ieri Giorgia Meloni parlando alla Camera da presidente del Consiglio. Il discorso della Meloni è stato anche ideologico. Cosa che è dispiaciuta a sinistra tant’è vero che una donna del PD dell’intelligenza di Debora Serracchiani ha calciato mandando la palla in tribuna: «Abbiamo udito un manifesto ideologico, ma poco sulle bollette del gas». Come dire che l’ideologia non è politica. Curioso.
Ciò che di più ha colpito nel discorso di investitura è stata l’immagine di un lungo viaggio, anzi di una navigazione. La metafora è stata come per Odisseo quella della nave che minaccia di affondare, riemerge, è una barca piena di buchi ma ancora la più bella. Il punto è che quell’itinerario sia diventato una sorprendente vittoria e che quella vittoria abbia provocato una profondissima frustrazione a sinistra. Quella donna piccola e bionda che ieri abbiamo visto parlare alla Camera e che in genere parla in modo spedito con alcuni sperimentati rulli di tamburo, ieri si è impacciata ed è inciampata, ha chiesto un po’ troppo ad alta voce un bicchiere d’acqua, ha ringraziato, ha ringraziato persino i giovani, i quali certamente scenderanno in piazza contro di lei così come lei è scesa in piazza contro tutti i governi.
La libertà è anche fare a botte con la polizia. E poi l’underdog. L’underdog non è un concetto italiano tanto è vero che Giorgia Meloni lo ha tradotto perché lei parla un buon inglese coltivato sui sacri testi di J.R.R. Tolkien, signore degli anelli, terre di mezzo, orde di orchi stranieri, e lei ha spiegato di essere una underdog, parola che in inglese vuol dire sfigato, quello su cui non scommetteresti ma che poi si rivela, come il brutto anatroccolo di Hans Christian Andersen o la Piperita Patty di Charlie Brown. L’hanno guardata tutti come l’underdog con quella fedina ideologica che ti porti dietro.
Mentre Giorgia lanciava la sua opa seduttiva alla Camera, intanto a Londra accadeva un fatto che avrebbe fatto saltare sulla sedia Rudyard Kipling, il poeta dell’impero britannico: un indiano figlio di indiani dell’India, dunque un figlio della perla dell’impero per la cui perdita Winston Churchill lanciò parole di fuoco contro il duca di Mountbatten, ultimo che l’aveva perduta, è diventato lui Prime Minister di quell’ex impero. È una novità per l’Occidente che si era già concesso molti punti mandando alla Casa Bianca Barack Obama. Anche Barack era un underdog. La Meloni, ex fascistella dall’adolescenza sfigata, rivendicava il suo status di underdog perché donna, per aver emotivamente portato in Parlamento una visione che è di destra perché è spudoratamente sentimentale. Quella ragazza dalla voce talvolta sguaiata e arrochita è una creatura sentimentale come mai alcun suo predecessore uomo sia stato. Dopo il discorsaccio inferocito all’incontro con i fascisti spagnoli di Vox un giornalista americano le chiese: “Ma non le pare di avere fatto una figura barbina?” e lei rispose che “Sì, ma ero molto stanca. Quando sono stremata divento isterica”. Un politico di carriera non direbbe mai che diventa isterico.
Intanto a Londra, in piedi davanti al portoncino del numero 10 di Downing Street, il signor Rishi Sunak salutava i giornalisti dietro le transenne con l’accento posh di chi ha studiato a Cambridge, non certo come un underdog della povertà. E sempre in questi giorni riprende quota un altro oggetto di destra: l’abominevole Donald Trump, la zazzera più odiata del mondo, accusato di aver aizzato le folle contro il Parlamento come fece Beppe Grillo quando voleva scoperchiare il nostro come una scatola di tonno. Quel Trump sta giocando la sua rivincita con una politica di destra che in Italia non è compresa: staccare l’America dal mondo, farne un pianeta separato, il contrario dell’imperialismo che consiste nell’occupare e sottomettere. Domenica molti italiani si saranno chiesti ancora una volta che cosa sia di destra.
Alle nostre latitudini se vuoi dire quanto sei di destra o di sinistra devi accettare il rito della fettuccia graduata su cui si segna all’estrema destra una tacca con scritto fascismo e dall’altra una con su scritto stalinista.
Poi si fanno tacche intermedie da destra a sinistra, scrivendo sigle di movimenti e partiti. La fettuccia non esisteva ai tempi in cui l’Inghilterra adottò il sistema democratico parlamentare poi imitato, spesso molto male in cui c’è un partito che rappresenta chi lavora sotto padrone e il partito dei padroni che producono ricchezza. Da noi grazie alle scissioni dal vecchio partito socialista italiano, (i comunisti nel 1921 e i fascisti dal 1919 e poi con la Marcia su Roma del 1922), con fettucce ancora mal definite. Ci vollero poi due eventi esterni per formare la sacra fettuccia che ancora è conservata nella cripta degli effetti speciali: una biennale alleanza non soltanto militare fra nazismo e comunismo sovietico e poi la pugnalata di Hitler a Stalin che diventò la Grande Guerra patriottica di tutti i comunisti del mondo che di colpo furono costretti a passare dal pacifismo filotedesco alla guerra armata delle Resistenze. Questa storia è l’uovo di serpente che genera mostri dopo essere stata occultata e resa invisibile facendo credere e credendo che l’estremità di sinistra della fettuccia, quella stalinista, fosse il bene, e quella nazifascista il male eternamente assoluto senza via di redenzione.
Ora, ditemi voi: può qualcuno che arrivi dalle ceneri del fascismo sindacale e borgataro esser degno di vincere delle democratiche elezioni? Se ricordate, era già successo con Gianfranco Fini il quale andò a chiedere scusa ad Israele e aveva passato tutti gli esami del sangue, ma che diventò il beniamino delle sinistre quando si oppose a Silvio Berlusconi e fu arruolato fra i bravi ragazzi. Di qui la domanda successiva su che cosa voglia dire essere di sinistra quando si smette di essere difensori dei lavoratori nei grandi conflitti sociali ma ci si improvvisa radicali aprendo piste già arate dalle democrazie anglosassoni che ci precedono di un ventennio. “Io questa volta voto Meloni” dicevano gli operai dell’Ilva di Taranto, con il cipiglio di Cipputi. Una volta gli operai di Mirafiori gridavano “Io voto Berlinguer”. E poi hanno votato per la Lega di Bossi e poi per Berlusconi e per il Salvini sudista. Ora è il turno della Meloni, ma le vittorie sono effimere, e Giorgia lo sa. Berlusconi aveva stravinto due volte presso quell’elettorato e per silenziarlo hanno dovuto usare con la marcia indietro la legge Severino.
È vero, la Meloni è identitaria. E chi non lo è? I francesi? Suvvia. Gli inglesi? Hanno messo le navi da guerra nella Manica. E poi ciò che sta accadendo in Ucraina mostra la drammatica robustezza della questione identitaria. L’unico nemico della Meloni può essere l’alleato che concorre sullo stesso elettorato. In Italia abbiamo avuto la fortuna di guide come quella di Mattarella e molto dopo, più tardi, di Draghi che hanno saputo mantenere uniti l’apparire e l’essere, mentre il mondo veniva aggredito da mostri letterari come la grande pestilenza cinese, la ferocissima guerra russa che è vietato chiamare guerra, l’incombente carestia africana, la crisi dei prezzi come nel quindicesimo secolo accompagnati da pestilenze, movimenti predatori e fuga di popoli spinti dalla fragilità del mondo.
Oggi il nostro ecosistema regge e Giorgia Meloni, anche per sua scelta, è la piccola fiammiferaia di George Bernard Shaw diventata leader senza perdere il suo accento cockney delle borgate. Ormai che è nella sua forma posh, ovvero aristocratica, è lo stesso di Draghi con il suo sorriso benevolo da squalo. Previsione: se la Meloni reggerà, la sinistra ne risulterà rigenerata. Se invece dovesse cadere, come è possibile, avremo un’altra era di glaciazione sia a destra che a sinistra.
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