Non ci sono dubbi. Il governo che nasce, più di tanti altri nel passato, si confronta con incognite, sfide e opportunità. Le incognite riguardano soprattutto la sua tenuta. Innanzitutto perché la storia d’Italia dall’unità ad oggi ci ricorda che la durata non è il nostro forte: una media intorno ai 10 mesi (poco più di un anno in epoca repubblicana); nessun esecutivo che abbia potuto festeggiare il quarto compleanno. Da questo punto di vista il quadro, anche questa volta, è in chiaroscuro.

Le fibrillazioni che hanno condotto al parto avvenuto oggi, più che spaccature profonde, a mio parere, vanno ascritte nella categoria degli avvertimenti. Nessuno dispone completamente del controllo. Ciascun partner potenzialmente può influenzare i destini dell’esecutivo. È il governo di coalizione bellezza! Nello stesso tempo, però, la solidità di un governo dipende anche dalle alternative possibili. E su questo piano i margini di manovra, alla luce dei risultati elettorali, della determinazione della Premier e della crisi profonda della sinistra, appaiono assai più ristretti che in passato. Mai come oggi, forse, la possibilità che una crisi renda inevitabili nuove elezioni è stata così concreta. E le elezioni, si sa, sono per molti partiti un fantasma da togliere il sonno.

La fantasia italica non ha limiti, ma se il partito di maggioranza relativa decidesse di rendersi indisponibile a qualsiasi aggiustamento, non sarebbe così facile far continuare la legislatura. Anche perché dopo l’esperienza Draghi gli argomenti per giustificare e legittimare un esecutivo che lasci all’opposizione il partito che più di tutti gli altri ha vinto le elezioni, sono davvero ridotti al lumicino. Al peggio non c’è fine, ahinoi, ma certo è difficile pensare una situazione più critica di quella in cui eravamo quando sono state convocate le elezioni di settembre. Eppure essa non è riuscita a farle evitare. A ciò si aggiunga che, al di la di una improbabile ricandidatura dello stesso Draghi, figure altrettanto autorevoli non si vedono all’orizzonte.

Un governo tecnico di unità nazionale sarebbe una brutta copia dell’attuale, con una maggioranza obbligata e ancora più composita di quello che aveva sorretto l’ex presidente della Bce. Difficile far digerire agli italiani un governo tecnico in versione “brutta copia”. Le sfide, invece, ci sono e certamente sono di quelle da far tremare le vene ai polsi. Collocazione internazionale e gestione della crisi geopolitica epocale, politica economica in un contesto drammatico per famiglie e imprese, con margini di manovra ristrettissimi e vincoli europei difficilmente eludibili; politiche sociali e sui diritti civili sulle quali i conflitti si potrebbero fare incandescenti; riforme istituzionali, oggetto di ambizioni progetti promessi in campagna elettorale.

Sulla collocazione internazionale è difficile che la situazione possa precipitare. Non a caso il Quirinale ha messo in chiaro che, su quel versante, la vigilanza del Capo dello Stato sarà ferrea. Sulla politica economica, come si diceva, difficile pensare a interventi che vadano molto al di là dell’obiettivo di porre argini alla crisi. Difficile pensare cioè a profonde riforme di sistema, da attuare subito e i cui risultati effetti positivi possano concretizzarsi nel breve e medio termine. Anche sui diritti civili i margini per iniziative dirompenti, al di là delle parole, sono oggettivamente pochi. Sia perché l’approccio, malgrado qualche fuga in avanti (o indietro) da parte di qualcuno, appare nella sostanza piuttosto cauto. Ma soprattutto perché il tasso di conflittualità complessivo nel paese non può superare un certo livello di guardia. E la situazione economica basta e avanza per essere preoccupati.

Rimangono le riforme. Se il programma enunciato fosse effettivamente perseguito, con la determinazione necessaria a superare gli ostacoli e le trappole di cui è lastricata la strada di ogni riforma costituzionale il successo sarebbe oggettivamente clamoroso. Ma, stando agli obiettivi, si tratta di un assai vaste programme avrebbe detto de Gaulle: riforma della giustizia, presidenzialismo, autonomie differenziate. Tutte le sfide sono anche opportunità, ma in questo caso, ci sembra, che sia difficile pronosticare, per questo, ma in generale, per qualsiasi governo ci fosse, che tutte queste sfide possano effettivamente tramutarsi tutte in opportunità di successo. Il nostro sistema politico non è attrezzato, per le ragioni dette all’inizio, per tramutare tutte queste sfide in opportunità. E il tempo, dati i precedenti, non gioca a suo favore.

La Premier, dunque, a un certo punto dovrà necessariamente scegliere su quale delle opportunità abbia maggiore chance di avvicinarsi o raggiungere il successo. La composizione del governo, non consente di comprendere ancora se tale scelta sia stata fatta, e anzi, alcune soluzioni, probabilmente determinate dalla necessità di riempire le varie caselle, contenendo le spinte e controspinte che inevitabilmente si sono scatenate, potrebbero far pensare a qualche “disinvestimento”. Ma la composizione dell’esecutivo non è comunque decisiva se fosse la stessa Premier a co-intestarsi i singoli dossier. È fisiologico, in questo stadio, che il giudizio rimanga sospeso.

Si cita spesso la frase di de Gasperi secondo cui “il politico guarda alle prossime elezioni, lo statista alla prossima generazione”. Non so se in questo caso, il dilemma di Giorgia Meloni sia effettivamente questo. Forse, più realisticamente, il vero dilemma è quello di quali siano le opportunità sulle quali è più realistico puntare, gestendo, nel migliore dei modi possibili, le altre sfide. Ma non è detto, però, che, da questa scelta (penso al tema delle riforme costituzionali) non possa venir fuori qualcosa di buono anche per la prossima generazione.