Mafia ed ergastolo
Sulla giustizia non è Nordio la stella polare della Meloni
Lui pensa a una rivoluzione copernicana. Lei la inscrive nel cerchio della “legalità” , della “certezza della pena” e della “lotta alla mafia”. Non proprio un freno, le parole pronunciate ieri sulla giustizia dalla Presidente del consiglio Giorgia Meloni, rispetto al suo ministro rivoluzionario, il più garantista della storia, Carlo Nordio. Non è un freno, anche perché il suo guardasigilli l’ha scelto e voluto lei personalmente, anche come candidato Presidente della repubblica, prima ancora che negli uffici romani di via Arenula. Ma è sicuramente almeno un incontro diacronico, quello tra i due, e un po’ strabico di principi e storie.
Quando lei dice che legalità vuol dire anche effettiva parità tra accusa e difesa e ragionevole durata del processo, fila via tutto dritto. Sta parlando Nordio, con il suo programma di rivoluzione copernicana. Che poi, come lui stesso ha spiegato nei giorni scorsi in alcune interviste, consiste solo nell’effettiva applicazione del codice di procedura penale Vassalli che, nel 1989, avrebbe dovuto introdurre nell’ordinamento italiano il sistema anglosassone. Quello basato sull’effettiva parità tra accusa e difesa e con la prova formata in aula e non più nelle segrete stanze di pubblici ministeri e giudici istruttori, come era nel sistema inquisitorio. Ma va ricordato, e se non lo sa Meloni, non può ignorarlo Nordio, che già dai primi momenti quel codice fu definito solo “tendenzialmente” accusatorio. E anche che in seguito una serie di norme volute dal Parlamento, ma anche decisioni della Corte Costituzionale, lo hanno ammorbato con incursioni inquisitorie. Che andranno spazzate via.
Questo è accaduto soprattutto nei “maxiprocessi” e nell’applicazione costante e selvaggia dei reati associativi, che ha fatto accantonare ogni sogno rivoluzionario. Nell’aula dove si celebra il processo non accade affatto quel che abbiamo visto nel passato con Perry Mason e ancora oggi in tante serie tv americane. Dibattimenti in cui si formano le prove, accadono imprevisti e giochi di prestigio di accusa e difesa. Tutto si sviluppa e si decide lì. Infatti i processi si celebrano subito, non dopo anni. Nel processo italiano è tutto già scritto e visto nelle mani di un pubblico ministero portatore di un potere immenso, come non accade in nessun ordinamento del mondo occidentale. E tutto viene gonfiato dai media. E nei processi di mafia in particolare, le testimonianze rese dai “pentiti” in altre inchieste o procedimenti entrano nell’aula insieme al fascicolo del pm. Ma la prova non dovrebbe formarsi nel dibattimento?
Giorgia Meloni non si è mai occupata direttamente di giustizia. Però la sua storia politica ha una nascita con una data precisa, e lei lo ha ricordato diverse volte, il 19 luglio del 1992. Lei aveva quindici anni, e un magistrato siciliano, Paolo Borsellino, quel giorno veniva assassinato dalla mafia. La giovane Giorgia reagì con rabbia, con quel grumo quasi sputato fuori dalla gola, come solo gli adolescenti sanno fare. Lo ha trasformato in progetto politico, dice. E lo ripete a voce alta, improvvisamente superando quel noioso raschino alle corde vocali che l’emozione le ha punteggiato gran parte del suo intervento alla Camera dei deputati. Il (la) Presidente del Consiglio assume un impegno forte, come non si è mai sentito in quest’aula neppure sulla bocca dei più ferventi militanti dell’antimafia. Pone la legalità come “stella polare dell’azione di governo”, grida “affronteremo il cancro mafioso a testa alta” e lancia la sua sfida a “criminali e mafiosi” che meriteranno solo “disprezzo e inflessibilità”.
Qui Giorgia Meloni parla con il cuore e i sentimenti. Ma ha già abbandonato Carlo Nordio con il suo programma di rivoluzione copernicana sulla giustizia. Perché è vero che spetta al governo combattere ogni forma di criminalità e anche la gravi forme di devianza sociale. Le mafie le incarnano tutte e due. Ma manca un “però”, alla sua invettiva. Che ha comunque avuto successo, e non a caso è piaciuta a Rita Dalla Chiesa, neo-parlamentare e figlia di una delle vittime più illustri di Cosa Nostra, e anche a Maria Falcone, sorella di Giovanni, che non rinuncia purtroppo ad accompagnare i complimenti con una frasetta a bocca stretta, “aspettiamo i fatti”. Il “però”, che sicuramente Nordio avrebbe aggiunto, è che anche i processi per mafia dovrebbero sottostare alle regole che la stessa Meloni ha indicato nella prima parte delle sue (poche) parole sulla giustizia. E qui occorre una precisazione che deve precedere ogni altra riflessione.
Nell’indicare come “eroi” Falcone, Borsellino e tutte le altre vittime più illustri della mafia, il (la) Presidente del Consiglio ha un po’ confuso i ruoli tra gli organi dello Stato. Cioè da una parte le forze dell’ordine, che sono chiamate a lottare e sconfiggere i fenomeni criminali, e il compito dei magistrati, che devono limitarsi a indagare per individuare i responsabili di ogni delitto. Guai però quando il pm scende nell’agone della lotta, si mette a ingaggiare il corpo a corpo, inoltrandosi su terreni che non devono mai essere i suoi. Non essendo lui il rappresentante del governo. Per capire e superare questa confusione di ruoli, bisognerebbe che le regole del “giusto processo” cominciassero a transitare prima di tutto, per esempio nella maxi-aula di Lamezia dove si celebra (si dovrebbe celebrare) il processo “Rinascita Scott”. O in quella di Reggio Calabria dove è in corso un nuovo “processo trattativa”, dopo quello fallimentare di Palermo e dove a un detenuto di nome Graviano è stato donato un computer perché possa riascoltare con calma le sue stupidaggini su Silvio Berlusconi.
Ecco, questi due esempi mostrano come la lotta alla mafia da parte del governo dovrebbe passare prima di tutto dall’attenzione sulle regole e sulla loro applicazione. Non c’è bisogno di sottoporre il pubblico ministero al controllo del governo, come ha già detto il ministro Nordio. Ma il guardasigilli ha comunque il dovere di controllare che il processo si svolga nell’applicazione delle norme e dei principi costituzionali. Sull’applicazione della custodia cautelare, per esempio. In qualche intervista Carlo Nordio ha già mostrato di avere le idee chiare sul punto, dicendo che “il diritto alla libertà personale merita una garanzia in più. Credo che la richiesta di arresto formulata da un pm dovrebbe essere vagliata da un collegio di giudici, meglio se di città diverse da quella del pm…”. O il problema delle intercettazioni, che il nuovo guardasigilli considera “strumento invasivo e anticostituzionale, che dovrebbe essere relegato tra gli spunti investigativi..”. Viene alla mente Giovanni Falcone, quando diceva che la deposizione del “pentito” deve essere solo uno dei tanti spunti investigativi, da usare come apriscatole e non come prova.
Una cultura, o meglio culture che andranno applicate -ma ci vorrà del tempo, perché Nordio ha anche il problema di farsi accettare dai suoi ex colleghi magistrati- a norme come quella sull’abuso d’ufficio piuttosto che sul traffico di influenze e la “legge Severino”, o il famigerato concorso esterno in associazione mafiosa, che addirittura non esiste nel codice. Ma siamo sempre nelle fasi processuali, quando l’imputato è ancora innocente secondo la Costituzione. Potremmo assistere a una vera divaricazione all’interno dello stesso governo, e soprattutto se il guardasigilli sarà affiancato da viceministri e sottosegretari di cui già conosciamo l’adesione ai principi dello Stato di diritto, quando si entra nel campo dell’esecuzione. Purtroppo Giorgia Meloni anche nel suo esordio come primo ministro, non ha dimenticato di parlare di “certezza della pena” e di un nuovo “piano carceri”.
E qui vorremmo per un attimo poter tirare la giacchetta alla ministra or ora uscita dal governo Marta Cartabia, che sul tema ha mostrato di aver molto da insegnare. E auguriamoci che certezza della pena non significhi, nella testa di Giorgia Meloni, certezza del carcere. Però lo stesso Nordio che ha in mente lo schema del processo anglosassone, potrebbe spiegare al(la) Presidente l’istituto americano della “probation” e delle misure alternative. Se c’è bisogno di nuove carceri, potrebbe essere, come ha detto il capo del Dap Carlo Renoldi, di cui auspichiamo il permanere nel suo ruolo, solo per sostituire quelle più fatiscenti. Come a dire che non occorre arrestare di più per fare giustizia. Ma noi aspettiamo la realizzazione di quello che Nordio ha messo tra i primi punti del suo programma: la depenalizzazione. Giorgia sarà d’accordo?
P.S. Nella replica alla Camera il (la) Presidente del consiglio ha chiesto a tutte le forze politiche di difendere insieme l’ergastolo ostativo. Ma Nordio si è ricordato di dirle di essere contro l’ergastolo?
© Riproduzione riservata