Correttamente, nel dibattito aperto da Il Riformista, sui “primi cinquant’anni” dello Statuto del lavoratori, Paolo Guzzanti ha voluto attribuire a due ministri del Lavoro una parte del merito dell’approvazione di quella legge fondamentale nell’ordinamento della Repubblica. A Giacomo Brodolini, al quale va il merito di aver promosso l’iniziativa incaricando una commissione di redigere un testo; al democristiano Carlo Donat Cattin che succedette a Brodolini, dopo la sua morte (l’11 luglio 1969) e che portò l’anno successivo al varo la legge n. 300. Tra questi due eventi era intercorso quel grande momento di riscossa operaia passato alla storia come “l’autunno caldo” con il rinnovo del contratto dei metalmeccanici il quale aveva anticipato alcune delle norme poi recepite dallo Statuto. Ho voluto premettere in estrema sintesi il ruolo di due importanti personalità della Prima Repubblica e ricordare il contesto di grande rinnovamento sociale concentrato in pochi mesi, senza togliere nulla a Gino Giugni universalmente riconosciuto come “il padre dello Statuto”.

Gino partecipò all’elaborazione della legge n. 300, svolgendo una funzione formalmente tecnica: fu il presidente della commissione nominata da Brodolini, del quale era capo dell’Ufficio legislativo e in tale posizione fu confermato, con lungimiranza, da Donat Cattin. Ma di Giugni furono decisivi il contributo culturale e giuridico e la visione delle relazioni industriali. Attraverso quella legge il giurista socialista (tra i fondatori del nuovo diritto sindacale) fu in grado di elevare ad ordinamento organico e compiuto il “diritto vivente” ovvero quel sistema di relazioni che si era costituito, nel dopoguerra, pur in assenza dell’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione. Nel corso degli anni Cinquanta il diritto sindacale restava in attesa messianica (si parlava allora di “speranze deluse”) di quanto aveva previsto la Costituzione, risolvendo, in quell’articolo rimasto sulla carta, le questioni cruciali della rappresentanza e della rappresentatività sindacale e dell’efficacia erga omnes dei contratti di lavoro nel testo. Ma l’articolo 39 però giaceva, per tanti motivi, inattuato, nonostante che ogni Ministro del lavoro cercasse di sbloccare la situazione di stallo con un proprio disegno di legge.

Ma il diritto sindacale continuava a restare nell’ambito del diritto comune, come un orfanello abbandonato, finché nel 1960 Gino Giugni – a soli 33 anni – diede alle stampe, per Giuffrè, il libro Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva da cui scaturirono, grazie all’applicazione della teoria degli ordinamenti giuridici al diritto sindacale, una nuova visione e una diversa interpretazione della materia che doveva essere accettata e studiata per quello che la realtà e l’esperienza avevano espresso e non più attraverso la sterile ricerca di un “dover essere” dimenticato ed impraticabile. Scriveva, in proposito, Giugni parole destinate a cambiare la storia: «Un’attività che si è svolta nel precario contesto della legge comune dei contratti, è risultata viziata da mille insufficienze, ma è nondimeno costitutiva di un valido patrimonio di esperienze di “diritto vivente”». Ai tempi dello Statuto, poi, parlare di “legislazione di sostegno” del sindacato in quanto tale, sollevava parecchie riserve e perplessità anche tra i giuslavoristi orientati a sinistra.

Quella di Giugni, era una visione moderna, influenzata dall’esperienza americana (la legge Wagner del 1935, caposaldo dell’epoca di F. D. Roosevelt) ed era rivolta a riconoscere le libertà sindacali nei posti di lavoro attraverso la loro attribuzione al sindacato esterno (che può convocare l’assemblea durante l’orario di lavoro, raccogliere i contributi associativi, nominare i rappresentanti aziendali, garantire dei permessi retribuiti ai propri dirigenti in produzione, diffondere materiale di propaganda, ecc.). Ma la novità più importante stava nell’articolo 28, (ispirata alla injunction dei tribunali americani), che ammetteva un’azione giudiziaria urgente, promossa dai sindacati, per rimuovere un comportamento antisindacale, la cui sussistenza (acausale) rientrava nella valutazione discrezionale del giudice.

In questi 50 anni lo Statuto ha avuto delle modifiche legislative; alcune norme di rilievo sono state sottoposte a referendum abrogativo; si è attesa invano la sua “rifondazione” nel contesto di uno Statuto dei lavori, auspicato da tanti (in queste stesse ore) ma rimasto, anch’esso, nel novero delle “speranze deluse”. Tra le modifiche più attempate vi è la disciplina del collocamento, che, negli articoli 33 e 34 (Titolo V), riconosceva lo Stato come unico intermediario tra domanda e offerta di lavoro che operava secondo le graduatorie incluse in liste numeriche, mentre la chiamata nominativa era ammessa in pochi e limitati casi. Un’impostazione statalista barocca, inapplicata ed inefficiente, per fortuna travolta dalle direttive europee. È toccato poi al jobs act cambiare alcune disposizioni divenute superate nel tempo: l’articolo 4 (Impianti audiovisivi) riferito ai controlli a distanza, messo in crisi dalle moderne tecnologie; l’articolo 13 (Mansioni del lavoratore) rendendo più flessibile lo ius variandi del datore di lavoro onde consentire una maggiore mobilità del personale. Infine, è mutato l’articolo 18 (Reintegrazione nel posto di lavoro) in tema di disciplina dei licenziamenti ingiustificati. Oggi l’articolo 18, nella sua applicazione generale, è stato ampiamente novellato dalla legge n.92/2012. A latere, il dlgs n.23 del 2015 ha introdotto una differente disciplina del licenziamento individuale (con alcuni riferimenti ai licenziamenti collettivi) a valere per i lavoratori dipendenti assunti dal 7 marzo di quell’anno con un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti.

A parte la questione dell’abrogazione dell’articolo 36 (contributi sindacali) che non ha sortito effetti pratici, la modifica più destabilizzante, per via referendaria, della legge n.300 ha riguardato l’articolo 19. Il comma cassato faceva riferimento alle «associazioni aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale» nel cui ambito potevano essere costituite le Rsa. Grazie a questa norma il “diritto vivente”, aveva assunto la dignità di un vero e proprio ordinamento giuridico, estraneo a quanto disposto dall’articolo 39, basato sui critei della maggiore rappresentatività, reciprocamente riconosciuta tra le parti, della libertà di associazione e sull’applicazione ordinaria dei contratti di diritto comune purché stipulati dai soggetti protagonisti del sistema. In sostanza la conferma legislativa della visione di Giugni. La mutilazione dell’articolo 19, collegando il criterio della rappresentatività ai sindacati firmatari del contratto applicato in azienda, ha scoperchiato il vaso di Pandora e ha prodotto la moltiplicazione dei soggetti collettivi tutti abilitati a negoziare contratti collettivi anche se cambiano in peius le condizioni dei lavoratori, purchè siano applicati in azienda.