Tira una certa aria di tensione tra il presidente del Consiglio e uno dei più rilevanti partner della sua maggioranza. C’è sempre all’orizzonte un momento decisivo della chiarificazione annunciata e, ogni volta, rinviata. Di quella che dovrebbe essere la controversia, Draghi ha detto: “Nel documento del leader M5s, Conte, ho trovato molti punti di convergenza con l’agenda di governo. I temi discussi con i sindacati sono in quella direzione”. Sembra un reperto trovato nell’albo del vecchio doroteismo, invece è appena di qualche giorno fa. Giusto un giorno prima che al Senato andasse in scena una pre-crisi. È così che va definita del resto, una crisi che non è ancora stata parlamentarizzata. E il cui il reale sbocco, è atteso per mercoledì.

Se i principali protagonisti, smentita la convergenza vantata da Draghi, agissero infatti secondo i propositi annunciati e proposti dai comportamenti al Senato, sarebbe la crisi di governo. In particolare, lo sarebbe per il presidente del Consiglio di cui è in gioco la credibilità politica. Ma se la crisi fosse evitata saremmo al pieno ritorno del doroteismo, al ritorno di un doroteismo peraltro degradato alla vita di un governo in una crisi-non-crisi permanente e si ritornerebbe così con un governo sfibrato alla citata dichiarazione del premier. Cosa c’è insomma dopo la crisi-non-crisi? Le mura della prigione che tiene in cattività la politica e le sinistre rischiano persino di ispessirsi. Nella breve citazione del presidente del Consiglio c’è quasi tutto: c’è l’unico campo largo esistente nella politica reale che è quello che sostiene il governo e c’è un largo governo di fatto che comprende, o almeno dovrebbe comprendere, le parti sociali, così da formare l’establishment dell’emergenza continua.

Ma la devastazione della politica, l’ormai conclamata sua separazione dalla società civile, dal Paese reale, propone un’impasse storica, tanto che se i muri della prigione anche cadessero e si aprisse una crisi di governo, la politica che anche in questo quadro si annuncia è cattiva politica. Essa non si propone infatti, anche in quelle ipotesi, nessun ripensamento di fondo, nessuna fuoriuscita dal circolo che ha devastato democrazia e politica, un ciclo ormai lungo più di cent’anni. Essa non si propone nessuna ricerca teorica e pratica per un’alternativa allo stato delle cose esistenti, nessuna fuoriuscita degna di questo nome dalla crisi che attraversiamo, piuttosto emergono diverse vocazioni alla nostalgia, a un heri dicebamus, sia nel Pd che nei Cinque stelle, per non parlare delle destre.

Se non nasce una nuova sinistra antagonista, di massa, che impedisca la rinascita di una dialettica mortifera tra un centro della governabilità e un’opposizione di nuovo populista, entrambe in armi nella Nato, non si uscirà né dalla crisi della democrazia, né da quella della politica. Oggi mi pare evidente che però essa può nascere solo da una rottura radicale, con tutto questo establishment, da un’opposizione sistematica a tutti i suoi possibili governi, a tutte le sue possibili varianti, e a un investimento assolutamente prioritario sul conflitto e sui suoi protagonisti reali e potenziali. Hai presente la genesi della sinistra di Mélenchon in Francia? Al contrario, c’è qui un tic che rivela l’irriformabilità del campo che nella geografia politica si configura come quella del centrosinistra, ed è proprio la sua coazione a ripetere, il suo non sapersi pensare fuori da quello schema anche quando tutto gli si cambia attorno, sopra e sotto. È il tic che rivela la sua organica irriformabile estraneità a tutto quel che accade nella realtà concreta del Paese, nella sua crisi che si approfondisce e a volte fa persino paura, nella contesa di fondo che invece viene nascosta, fuorviata, assorbita, in una dimensione macroeconomica cieca, in cui la vita di lavoro e la vita tout court delle persone e delle comunità è ammutolita e ridotta a variabile dipendente dal sistema economico così come nella sua funzione reale.

Non c’è denuncia delle intollerabili diseguaglianze che si sono venute costituendo che tenga. Se anche constati che la media dei 10 top manager italiani guadagna 649 volte quelle di un operaio (era di 416 volte nel 2008, ma era “solo” 45 volte nel 1980), non si affaccia neppure l’ipotesi di un aumento generalizzato dei salari e degli stipendi, neanche se l’Inps ti dice che questo è diventato il Paese del lavoro povero e delle pensioni miserabili (4,3 milioni di lavoratori stanno sotto i 9€ lordi, lordi!, all’ora e un terzo dei pensionati non arriva ai 1000€ al mese), anche se l’Inps ti dice tutto ciò, la politica non sente, non vede, non parla. Intanto l’inflazione reale è più alta significativamente per le famiglie a più basso reddito, è la fatidica tassa diseguale che è oggi ancor più all’opera che ieri. Ma la virtuosa Scala mobile che difendeva il salario dall’inflazione resta sepolta sotto la damnatio memoriae imposta dalla rivincita classista. Persino sul salario minimo per legge si cincischia dal governo come nelle forze politiche di maggioranza, e si cincischia ignobilmente mentre i bassi salari sono fortissimamente praticati e voluti in nome di una competitività delle produzioni nazionali dai bassi salari drogata. Ma il governo e le parti sociali dovrebbero secondo il pensiero dominante tornare alla filosofia della concertazione che si vorrebbe avviata da Ciampi con gli accordi del 1983 quando invece lo è stata dal governo amato con l’accordo del 1982, un accordo che portò alle dimissioni del segretario generale della Cgil e qualcosa questo deve pur dire.

Forse lo si fa per occultare che da lì ha preso il via una politica distributiva, fondata sul salario come variabile dipendente, sul contenimento dei salari per contrastare l’inflazione. Tutto questo armamentario, con il protagonismo successivo del sistema delle imprese contro il salario e del legislatore suo complice e con l’abbattimento dell’autorità salariale, del sindacato, e con l’indebolimento pesante del Contratto nazionale di lavoro, tutto questo ci ha portato a un esito sciagurato, all’esito che oggi registriamo nel lavoro, nella società italiana. I governi di centrosinistra che sulla fine del secolo scorso hanno governato tutta l’Europa nell’avvio della globalizzazione capitalistica e nella costruzione dell’Europa di Maastricht sono stati i coprotagonisti della loro rivincita di classe e dell’annientamento delle politiche di riforma, un processo che ci ha condotti fin dove siamo arrivati ora.

Ma qui, in questo sconvolgimento che la guerra ingigantisce e rende sempre più drammatico, qui, in un mondo in cui gli Usa rischiano di entrare tecnicamente in recessione e in cui la locomotiva tedesca incontra un suo rovesciamento e nel quale il nostro Paese rischia di essere travolto dalla crisi economica e sociale, che le politiche economiche anche di questi ultimi anni che le imprese e i governi hanno generato, la nostalgia che ha preso il governo e i partiti di governo del tempo andato è già una conferma di impotenza delle politiche di questi partiti, peggio di una vocazione in realtà sostanzialmente conservatrice. In questo grande campo senza riforma sociale, il campo politico che è moderato anche quando si pretende progressista, si esaurisce in particolare nel suo tic, che è una povera nostalgia per il tempo di una vittoria nella competizione del governo del Paese con cui si vorrebbe nascondere il suo fallimento. Si leva nella tempesta del tempo presente uno stormire di fronde nella politique politicienne e ritorna subito il tic. Il governo dell’indiscutibile – per tutti i governisti – Mario Draghi traballa e l’ultimo allegato del Pd, il M5s è tormentato dal dover compiere una scelta che vorrebbe evitarsi e che già gli ha portato in dote una scissione per lui assai importante.

Se i Cinque stelle scegliessero l’opposizione al governo Draghi, per quanto in malo modo, essi proporrebbero, per la nascita di una forte sinistra, un ulteriore problema la necessità di dotarsi di un nuovo fronte critico da reinventarsi, nel processo di costruzione di alternativa di società. Intanto, si sviluppa la crisi-non-crisi del governo Draghi. Anche la crisi-non-crisi è lo specchio del tempo. Non tiene più nulla sia negli assetti politici per rapporto tra i partiti, sia nelle alleanze di ieri, che solo le destre se le fanno piacere per proporsi di conquistare il governo. Non tiene più niente perché la capacità di governo del Paese è crollata. La tempesta è sotto gli occhi di tutti, quella politica istituzionale resterà però in un bicchiere d’acqua quale che sia il suo esito oggi, crisi o rinvio, se non si vedrà nascere né la realtà del Paese, né la politica, se non si vedrà nascere in essa e contro di essa una nuova realtà, una realtà contraria contro tutte le componenti del sistema, una sinistra antagonista e di alternativa, lo resterà, tempesta in un bicchier d’acqua, perché sarà sempre uno stormire di fronde per un popolo lontano da essa che vive e si dibatte in una realtà dura, pesante, a volte drammatica che la politica fa come se non esistesse e da cui una parte crescente di popolo si sente separata e lontana. Rompere la linea di faglia che divide il Paese ufficiale dal Paese reale sarebbe il primo compito e la prima sfida per la sua esistenza che una nascente sinistra dovrebbe avere, e fuori dagli schemi tradizionali anche della sinistra che ha sempre sostenuto che la forza di una soggettività si rivela essenzialmente per la sua capacità di proposta. Affermazione certamente vera, ma qui e ora una sinistra di popolo non può che nascere prioritariamente contro, contro l’esistente e contro le forze politiche che lo governano.

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Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.