E così alla fine l’avvocato ha fatto se non proprio centro, almeno centrino. Giuseppe Conte, ribattezzato “Giuseppi” da Donald Trump ha salvato mezzo partito, o movimento pentastellato e per prima cosa ha fatto la vociona del Coniglio Mannaro avvertendo nel suo italiano precipitoso che non ha tempo per congiuntivi, che il Paese reale (che sarebbe poi lui stesso) è molto più grande del Paese rappresentato in Parlamento e che quindi nessuno si sogni di toccare il suo reddito di cittadinanza perché sennò farà sfracelli.

Ora, a prescindere dal fatto che tutti sono d’accordo nel riconoscere un reddito a chi si trova in una fascia al di sotto del reddito minimo, così dicendo il leader del M5S ha compiuto consapevolmente un atto di delegittimazione dei risultati elettorali del tutto mussoliniana. Mancava solo accennasse all’“aula sorda e buia che potrei trasformare in bivacco dei miei manipoli”, e sarebbe fatta. Stiamo assistendo a un curioso fenomeno generale che non riguarda soltanto Giuseppi Mannaro: col pretesto di autocertificarsi come protettori estremi del sacro Graal della democrazia, parecchi (anche uomini di Chiesa) hanno portato la mano alla fondina vuota, ma che pur sempre fondina è. Nel frattempo, e questa secondo noi è la chiave con cui va letto il nuovo fenomeno monstre della destra al governo, Giorgia Meloni, la vincitrice, ha adottato un profilo raso-terra, la si nota per l’assenza, non si espone ai rischi mediatici e neanche al bagno di folla.

Probabilmente coloro che mettono le mani avanti nella previsione di menare le mani, cercano di realizzare un cordone sanitario dentro e fuori l’Italia, dove trovano appoggio sia a Parigi che a Bruxelles e anche nei circoli più democrat di Washington e di New York, La partita che Conte cerca di avviare col primo calcio è simile a quella che seguì le elezioni del maggio 2001 con un Berlusconi vittorioso, il cui governo fu subito definito “così di destra, che più destra non si può”. E immediatamente partirono tutte le campagne di delegittimazione possibili, perché così è fatta la politica in Italia. Conte è dunque nel trend, perché inevitabilmente si assisterà a una partita di delegittimazioni incrociate. Conte non era un politico e non sappiamo dire se oggi lo è, ma certamente ha imparato alcuni schemi di partita che si riducono tutti allo spariglio come a Tressette e alla violazione sistematica dei patti sottoscritti.

Ma Conte ha ragione, i fatti lo dimostrano: i suoi ex compagni di partito come Luigi Di Maio sono restati fuori dal Parlamento perché avevano marciato nella direzione della normalità. Lui invece ha imparato a retrocedere nel percorso che va dal movimentismo alla politica, mettendo la marcia indietro e recuperando il movimentismo e mollando la politica delle regole: il risultato elettorale non rispecchia il Paese reale (delegittimazione del sistema) di cui invece siamo noi (io, dice Conte) i legittimi rappresentanti. Ne consegue che “il reddito di cittadinanza è nostro e parla la stessa nostra lingua e se qualcuno si azzarda a toccarlo, per noi sarà una dichiarazione di guerra anche fuori dal Parlamento”, come si capisce perfettamente dal tono minacciosissimo che ha scelto di usare sia nella conferenza stampa dopo le elezioni che sul palco del comizio finale.

Nello stesso modo si è comportato per la questione delle armi all’Ucraina. Conte è passato dalla posizione pro-armi a quella contro, quando ha visto che quello era il nuovo pascolo. Dietro non c’era e non c’è alcuna nobile posizione pacifista, ma un calcolo semplificato all’osso con cui conquistare – e l’ha conquistata – la posizione di miglior visibilità su schermi e display. Ha sfilato un mattone alla diga della coalizione di governo che si reggeva con la colla e ha conquistato visibilità, tornando ai fasti dei suoi governi – che con modestia chiama “Conte uno” e “Conte due” – quando era sempre sui teleschermi. Ai tempi di Palazzo Chigi regnava un vero culto della personalità perché su quasi tutte le reti compariva sempre lo stesso video: Giuseppe Conte pensoso che cammina fra ori e stucchi che manco Vladimir Putin, suggerendo l’idea di chi è alla disperata ricerca della soluzione di tutti i problemi del mondo.

La sua camminata stanca e pensosa terminava in una stanza piena di video che simboleggiavano il costante contatto fra i grandi della Terra e lì si ormeggiava senza mai guardare in camera. Ora ha riconquistato una buona parte della visibilità e l’ha spesa per trasmettere un messaggio semplice e di facile ricezione: noi portiamo soldi, distribuiamo soldi, e non siamo come quell’odioso di Draghi che si oppone a qualsiasi sgarro, ritardo o adattamento. Noi, suggerisce, ci adattiamo alle vostre richieste di soldi sotto qualsiasi forma perché è per questo che esitiamo. Giuseppi Mannaro ha sgomitato molto per farcela, ma lasciando affogare metà dell’esercito che non ha radunato lui, si è salvato alla faccia dei buoni selvaggi che l’avevano messo insieme: Luigi Di Maio e il fantasista Dibba, quello che appare in abito da giungla sempre con l’aria capricciosa, scontenta, sprezzante e in fuori gioco. E ha avuto subito una camionata di soddisfazioni: Enrico Letta che lo voleva rieducare, si è rottamato da solo.

Renzi, che l’aveva schiodato per far posto a Draghi, non ce l’ha fatta così come non ce l’ha fatta Calenda. E così con una forza dimezzata ma ancora viva (e che gli è stata regalata, non l’ha costruita lui) è rimasto in piedi lui, the last man standing, il Coniglio Mannaro che ruggisce perché ha capito i fondamentali della politica. Ed è così che è arrivato a pensare di poter dettare le regole del gioco al Nazareno, da secoli privo di una guida e anche di obbiettivi. L’ascesa di quest’uomo segue dunque una parabola unica: un perfetto sconosciuto, benché avvocato, incontra un giorno per strada un suo assistente di studio, certo Bonafede, il quale gli dice: vieni, voglio farti conoscere una persona. La persona era Luigino Di Maio, un universitario fuoricorso napoletano che si guadagna la vita accompagnando al loro posto gli spettatori alla stadio (mestiere rispettabilissimo) e che è diventato un pezzo grosso nel movimento di Beppe Grillo, il comico.

Fu così che Conte incontrò Di Maio e Salvini, i quali si erano improvvisamente alleati, ma proprio per questo impossibilitati, ciascuno a fare il Presidente del Consiglio: “Ci serve una persona affidabile e neutrale che faccia il Presidente del Consiglio al nostro posto e poi vedrà che da cosa nasce cosa”. Conte accettò, salì al Quirinale da cui discendeva Carlo Cottarelli in maniche di camicia e trolley. Il resto è storia: il Presidente Mattarella che lo riceve dubbioso perché infastidito da un articolo del New York Times in cui si raccontava come il nuovo venuto e quasi capo del governo aveva un po’ taroccato il suo curriculum vitae. Fu così che il Conte sedette sul trono di Palazzo Chigi e diventò capo di un governo subito definitivo dalla stampa internazionale (allora come oggi) il governo più a destra che l’Italia abbia mai avuto.

Poi il covid... Non vogliamo rifarvi l’intera storia, anche se sembra passata un’era geologica da quei fatti, ma può aiutarci a valutare il percorso di Conte2 (la vendetta, contro Draghi) che è diventato uno dei riconosciuti cavalieri dell’apocalisse e detta legge, ordina e comanda. E ruggisce spazzando l’arena con la coda, come gli succede quando è nervoso, e annuncia il nuovo stile dell’opposizione una volta riportato nel talamo il Pd: vi faremo degli scherzi che neanche quelli di Bertinotti quando suonava i citofoni di notte.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.