La ripartenza della giustizia arranca tra confusione, incoerenza e contrapposizioni tra magistratura e avvocatura. Non bisogna cedere all’avvilimento (o ai proclami inutili) e, per far, questo, cercherò di sviluppare tre constatazioni e tre proposte. Partiamo dalle constatazioni. Già dall’inizio della crisi epidemiologica, a molti il governo parve disattento all’organizzazione degli uffici giudiziari. Abbiamo avuto quattro decreti legge che, oltre a congelare i termini processuali sino al 10 maggio (con svariate eccezioni), hanno mirato a contenere le presenze fisiche nei tribunali sino al 31 luglio. Le aule di giustizia, per condizioni dell’edilizia giudiziaria e carico dei processi, sono luoghi ad alto rischio (d’altra parte, a Napoli è nel palazzo di giustizia che si sono registrati i primi contagi). Per “svuotare” i tribunali, in linea con quanto si stabiliva per altri comparti della pubblica amministrazione, si è tentato di implementare lo smart working con due modalità: la trattazione scritta e l’udienza a distanza con connessione da remoto (attraverso dispositivi messi a disposizione dal Ministero di Giustizia).

Il governo ha devoluto la regolamentazione della cosiddetta fase 2 a protocolli siglati dai capi degli uffici giudiziari e dai consigli degli ordini degli avvocati, sentita l’autorità sanitaria regionale. Nella redazione dei protocolli, è emerso ben presto il disagio dell’avvocatura per l’udienza da remoto, la necessità di riprendere le udienze penali in presenza e di agevolare, per la giustizia civile, la trattazione scritta. I protocolli, per un ufficio giudiziario sterminato quale quello napoletano, sono stati sì siglati dopo un complesso lavoro di consultazione, ma l’avvocatura napoletana, protestando con veemenza contro i metodi adoperati dai capi degli uffici, ha alla fine ritenuto di revocare l’adesione ai protocolli. Qui non mi interessa stabilire chi abbia ragione tra avvocatura e magistratura. Piuttosto, “la favola insegna” che le regole processuali le deve redigere il legislatore, tanto più in situazioni emergenziali: la delega ai protocolli ha il sapore del bacile di Ponzio Pilato.

Il governo, col decreto legge 28, fa dietrofront e impone ai giudici (ordinari, non a quelli amministrativi e contabili) di essere presenti in ufficio se vogliono celebrare udienza online. La norma è stata brandita dagli avvocati (soprattutto penalisti) come una vittoria di civiltà: i processi penali si fanno in aula di udienza. Voglio a questo punto interpretare un sentimento diffuso tra i giuristi (quelli veri, che lavorano nelle aule tutti i giorni): il processo va fatto in tribunale, sia quello penale (direi necessariamente) che quello civile.

La domanda però è: in una fase emergenziale, se abbiamo il problema oggettivo del sovraffollamento delle aule, vogliamo rischiare di bloccare ancora tutto sino al 31 luglio o, invece, valutare soluzioni ragionevoli che facciano ripartire la giustizia? E vengo alle proposte. Gli uffici giudiziari sono porti di mare. Venerdì scorso è stato emanato un decreto puntuale da parte dei capi degli uffici di Napoli, ma è ancora troppo poco. La responsabilità di una piena messa in sicurezza, soprattutto a Napoli (sviluppo in verticale delle strutture, invasivi sistemi di areazione), deve essere assunta con rigore dal Ministero di Giustizia. Non basta la circolare del 2 maggio scorso: troppo generica, e direi anche… non tempestiva. La crisi è l’occasione per svolgere una seria mappatura degli uffici giudiziari. Nessuno ne parla.

Come mai? Per il Tribunale di Napoli mi pare poi essenziale una vigorosa presa in carico dell’analisi delle condizioni specifiche del palazzo di giustizia da parte dell’autorità sanitaria: sarebbe anche qui interessante sapere, visto che la decretazione d’urgenza l’ha coinvolta, a quali conclusioni sia giunta o stia giungendo. Dunque: regolamentazione sanitaria ad hoc. La celebrazione delle udienze deve ripartire in condizioni di sicurezza (molte udienze penali sono state celebrate in questi due mesi, in condizioni di scarsa sicurezza). Come si fa a tenere svuotate le aule il più possibile? Innanzitutto, concentrandoci su tutto quanto può essere fatto mediante lavoro a distanza.

Il processo penale deve ripartire con la presenza fisica: se non vogliamo “riempire” di nuovo gli uffici napoletani, molto a rischio per quanto evidenziato, le attività della giustizia civile devono potere essere svolte, nella stragrande maggioranza, da casa e implementando la connessione da remoto. Ma, per fare questo, avvocatura e magistratura devono e possono stilare una proposta congiunta e sottoporla al governo. Le regole processuali dovranno riguardare solo e soltanto la fase dell’emergenza; essere fissate in modo uniforme per l’intero territorio nazionale; contenere assicurazioni sul destino dei dati acquisiti dalla piattaforma utilizzata per i processi civili online; prevedere la possibilità alternativa della trattazione con note scritte ma con specificazioni puntuali di forme e termini per le parti, la cancelleria e il giudice; consentire la celebrazione da casa (se volete, mettiamoci pure indicazioni di opportuno decoro estetico); prevedere “clausole di salvaguardia” per il caso di difetto di connessione e, in generale, di non adeguata protezione del contraddittorio (che è l’unica cosa che conta).

Redigere un decreto legge con norme condivise e destinate a scomparire finita l’emergenza richiede una settimana di buon lavoro. La giustizia civile è uno dei supporti del tessuto economico e sociale: che riparta, in sicurezza e con efficienza! Bisogna esigere piena assunzione di responsabilità politica del governo e sollecitare unità di pochi, semplici intenti da parte di avvocatura e magistratura. Mi auguro che tutto ciò non viva soltanto nel regno di Utopia.