C’è un aspetto della vicenda del video di Beppe Grillo in difesa del figlio che non è stato adeguatamente messo in luce. La maggior parte dei commentatori si sono, comprensibilmente, concentrati in prevalenza su due aspetti: la sacrosanta critica morale e culturale dei contenuti e dei toni di quelle dichiarazioni e il (presunto) “voltafaccia” del fondatore dei Cinque Stelle passato da un intransigente giustizialismo a un interessato garantismo.

Ma il punto è proprio questo: siamo sicuri che si tratti di un voltafaccia? Certo il segno della presa di posizione è chiaramente opposto agli atteggiamenti precedenti. La magistratura non appare più come la giustiziera immacolata, chiamata a riparare tutti i torti commessi nella società, soprattutto dai titolari del potere pubblico; non appare più come lo strumento di moralizzazione di una società politica corrotta e opportunista, svenduta ai grandi interessi finanziari, ai grandi potentati mafiosi e chi più ne ha più ne metta.

No, in questa vicenda, che da privata viene trasformata in pubblica da chi, come Grillo, ha sempre mischiato pubblico e privato, passando dai palcoscenici ai comizi senza cambiare sostanzialmente linguaggio e contenuti… in questa vicenda, dicevo, anche i magistrati divengono parte del problema. E il problema merita un pubblica fatwa. Ed è proprio questo il punto di contatto che cancella ogni contraddizione dell’apparente voltafaccia. E che anzi conferma i caratteri del giacobinismo grillino (riferito al fondatore, ma spesso tracimato nelle piattaforme programmatiche del movimento).

Questi caratteri trovano le proprie radici in quell’idea demolatrica che cancella ogni traccia dello Stato di diritto, della separazione dei poteri e che rifiuta la complessità dei valori liberal-democratici, i quali sono continuamente sfidati dalla tensione tra potere della maggioranza e tutela delle libertà e dei diritti dei singoli e delle minoranze.
Un’idea di democrazia assoluta e totalitaria cui si aggiunge l’ingrediente tribunizio delle manifestazioni delle sue vestali, le quali, come nel caso di Grillo, divengono le vere (e uniche) interpreti della “volontà generale” con la quale hanno una presa diretta. Fino, paradossalmente, al limite di sconfessare persino le singole volontà di coloro che partecipano al processo democratico, perché accusati di fazionismo, di essere portatori di interessi particolari. In una parola di essere “nemici del popolo”.

Sono stilemi che conosciamo bene, perché la storia ce li ha offerti in abbondanza, proprio a partire dalle vicende che, al termine “giacobinismo”, hanno dato origine. Per questo motivo il segno diverso delle dichiarazioni di Grillo (prima giustizialista oggi innocentista) non cambia la natura e l’ideologia che vi sta dietro. Quella di ergere la gogna pubblica al di sopra della complessità degli eventi, delle procedure, delle garanzie, della fatica e della complessità del governo delle società avanzate, e in esse dell’amministrazione della giustizia o dell’esecuzione delle leggi. Con il risultato paradossale e tragico, proprio per il Grillo-padre (in contrapposizione al Grillo tribuno), che la sua esternazione rappresenta oggettivamente un colpo di maglio a quel principio di civiltà che è la presunzione di non colpevolezza (e che dev’essere garantito a tutti, anche a suo figlio, anche a un sospetto stupratore), il quale viene invece travolto dalla “politicizzazione” della vicenda, a cui le dichiarazioni del padre-tribuno hanno dato la stura.

E poco importa, dunque, che tale politicizzazione sia in senso giustizialista o innocentista, perché il vero problema è che, così facendo, si tolgono, ancora una volta, i processi dalle aule di tribunale e li si portano nella piazze, reali o mediatiche che siano. Dove lo scontro diventa ideologico, tra i sostenitori di Gesù e quelli di Barabba. Purtroppo, dunque, non c’è nessuna contraddizione, né nel metodo, né nell’approccio. C’è solo l’ennesima, minacciosa, randellata a quei valori faticosamente maturati nelle dolorose conquiste del costituzionalismo.