Ottanta milioni. Più dell’uno percento rispetto alla popolazione mondiale. È il numero dei rifugiati registrato dall’Unhcr alla fine dello scorso anno. Ottanta milioni di esseri umani – un terzo dei quali bambini, spesso “non accompagnati”, che è un modo polverosamente burocratico per dire orfani o abbandonati – fuggono dalla discriminazione etnica, dalla guerra, dalla tortura, dalla minaccia di morte per fame che incombe sulle regioni dalle quali proviene l’ottanta per cento dei profughi. Una manciata di Paesi produce i due terzi di quell’umanità in fuga: Siria, Venezuela, Afghanistan, Sud Sudan e Myanmar.

Queste cifre, in sé tragicamente significative, denunciano una verità rinnegata: e cioè che i migranti che provano ad accostarsi qui rappresentano una quota risibile di quell’immensa popolazione sradicata. Si tratta di poca gente che facciamo fatica ad accogliere e che perlopiù “integriamo” nelle piantagioni schiaviste del meridione d’Italia, giusto il tempo che serve alla raccolta, o nei lager nostrani ad aspettare che un burocrate decida se sono veri profughi o soltanto moribondi: e per il resto è roba buona nelle campagne elettorali in cui destra e sinistra competono per il primato nel non fare nulla.

Una leggenda auto-assolutoria, e con pretese di saggezza politica, vuole che l’immigrazione dovrebbe essere gestita selezionando quella utile, cioè in buona sostanza dovremmo accogliere soltanto accademici e manager, possibilmente catechizzati: e gli altri no, perché non servono. Le distese di baracche arrugginite dove il caporalato negriero ammassa i raccoglitori dopo dodici ore sotto il sole dicono però una cosa diversa, e cioè che l’immigrazione prediletta è proprio quest’altra, in realtà assai benvoluta a patto che rimanga nei ranghi più bassi della società.

E tutto questo senza considerare che, forse, davanti ai numeri spaventosi di quel disastro umanitario, un Paese civile dovrebbe assumere un atteggiamento un poco più responsabile: e domandarsi se non possa (se non debba?) contribuire in qualche modo a contenere lo scandalo di trentacinque milioni di bambini che cercano rifugio. Tra le tante provvidenze ignobili, destinate perlopiù a finanziare l’inefficienza e la rendita parassitaria (buone, se hanno la pelle bianca), una che si rivolgesse ad attenuare almeno un po’ la sofferenza di quei disperati sarebbe benedetta. E un pizzico di coraggio darebbe anche un nome a quell’impegno: prima chi affoga.