Del curioso articolo-dichiarazione di voto di Galli della Loggia apparso sul Corriere almeno una cosa è apprezzabile. Nell’elogio del costume di cambiare casacca e abbandonare opinioni consolidate, egli se la prende, con un gesto certamente inusuale, anche con un editorialista del suo stesso quotidiano. Prima di passare ad altro mestiere, quello di organizzatore di immagini in movimento dietro la macchina da presa, Veltroni aveva mostrato la propria vena creativa anche in un altro campo. Si distinse infatti nell’arte della rimozione della nuda realtà e nella trasfigurazione simbolica delle cose pronunciando le parole che forse più di altre resteranno nella storia della sua biografia politica. E cioè che lui, responsabile della “Stampa e propaganda” e membro degli organismi dirigenti del partito ospitato nei palazzi di via dei Frentani e Botteghe Oscure, non era mai stato comunista.

Facile per Galli della Loggia punzecchiare il politico smemorato grazie all’agevole possibilità di ripescare anche nel suo percorso precedente delle frasi e degli slogan che si presentano nella distanza con “un significato a dir poco imbarazzante”. Meno rilevante è invece l’articolo quando riprende, come indice del costume delle trasmigrazioni nel regno delle opinioni, una paginetta che Nilde Iotti aveva dedicato per la prefazione ad una raccolta di scritti del dittatore rumeno, che negli anni Ottanta contava in verità su molti appoggi simpatetici (e non principalmente tra i comunisti) per via della sua apparente prova di autonomia rispetto a Mosca. Già “Il Foglio” aveva dedicato, qualche anno fa, un ampio articolo alla fortuna internazionale dell’opera magna di Ceausescu e consorte, e quindi nulla aggiunge il riferimento del Corriere alla statista comunista come coinvolta nella parabola dei voltagabbana.

L’articolo la prende molto alla larga (disquisisce sul principio della legittimità del cambiamento di idee) e sarebbe del tutto irrilevante nei suoi passaggi se non fosse rivelatore anche di un imbarazzo che serpeggia nella stampa più impegnata nell’operazione di sdoganamento di Giorgia Meloni. Il problema non è ovviamente la liceità per un individuo di cambiare idee, collocazioni, atteggiamenti. Per un partito, però, queste cose si pongono altrimenti. Ci vorrebbero dichiarazioni, elaborazioni, confronti serrati, congressi. Fini con l’aiuto di Fisichella, e in seguito coinvolgendo anche intellettuali liberali e conservatori, queste operazioni di revisionismo le fece in maniera pubblica ed esplicita. Non risultano analoghi sforzi di riformulazione della cultura politica da parte della patriota romana. A dispetto del tentativo di Galli della Loggia, e del Corriere più in generale, di accreditare come già avvenute delle mutazioni radicali con profondi ripensamenti su nodi rilevanti di identità, il pensiero sulla politica di Giorgia madre e cristiana appare connotato da una fissità di tipo parmenideo. A nessun osservatore mai salterebbe in mente (a meno di scivolare negli schematismi di Forza Nuova che l’ha tacciata di essere una “nuova Badoglio”) di stigmatizzare la leadership della destra per dei repentini trasformismi ideali o per delle incoerenze programmatiche eclatanti rispetto ai principi prima fortemente creduti.

Tranne che sulla sconfinata ammirazione che nel suo libro tributava a Putin, e che ora a parole riserva invece all’Occidente armato, non si apprezzano sostanziali tradimenti o abbandoni di visioni che a lungo sono state coltivate. Basta ascoltare un qualsiasi comizio della Meloni per appurare che nulla di nuovo scorre sotto la fiamma. Il pensiero mitico con l’esaltazione della stirpe attraversa le sue forme di comunicazione e mobilitazione. La parola chiave del lessico è “attacco”. Il ricorso ossessivo alla metafora dell’attacco esprime un senso di angoscia profonda per come procedono le cose del mondo. È una dichiarazione di guerra contro il moderno, rifiutato nel suo complesso perché con il suo laicismo e individualismo rischia di contaminare, confondere, mischiare le appartenenze (“l’identità è il terreno di scontro fondamentale del nostro tempo. L’identità è il principale nemico del mainstream globalista”).

La volontà di resistere, che indica l’opposto di una positiva esposizione al nuovo, e l’invocazione della mitica tradizione, che è agli antipodi di una disponibilità ad aggiornare i paradigmi senza timori di incorrere nella incoerenza, sono i segni distintivi della retorica della leader romana. Evocando “orgoglio nazionale, radici, storia e identità”, la destra si rifugia entro una fortezza assediata dalla quale lancia degli anatemi bio-naturalistici misticheggianti contro il moderno per esortare il popolo mitizzato a non cedere ai segnali di decadenza. Sotto attacco, nello schema della destra radicale, è l’intero patrimonio valoriale della patria (“Tutto ciò che ci identifica è sotto attacco. È sotto attacco la persona, il senso del sacro, la famiglia, l’identità sessuale, la spiritualità, le stesse radici cristiane, il lavoro, la libertà di impresa, i confini delle nostre nazioni, la nostra storia, processata vigliaccamente dalla cancel culture, la nostra libertà di espressione, censurata ogni giorno nella vita reale, sui media e sui social network, dalla dittatura del politicamente corretto”). Contro tutto il presente inospitale, “deviante”, condannato alla malattia del relativismo, Meloni si richiama al “magnifico patrimonio di tradizioni”. In opposizione valoriale all’Europa (“Non ci faremo dire dai burocrati di Bruxelles se possiamo mangiare il nostro parmigiano o il vostro pata negra”), Meloni si aggrappa ai “veri valori”, cioè “all’Europa dei patrioti” e del sacro capace di strillare che con il trionfo dei sovranisti “la pacchia è finita”.

Sopra la nazione, che non è una costruzione libera e volontaria, secondo i criteri della modernità europea precisati da Chabod, ma un gruppo omogeneo, una comunità di sangue, una massa uniforme (“Noi crediamo in una nazione, un popolo, una lingua e una bandiera!”), si impone la figura salvifica di un capo carismatico che, nel disegno della grande riforma sognata da Meloni, si afferma attraverso il rito purificatore dell’elezione diretta di un decisore che, incarnando lo spirito del popolo, non deve sobbarcarsi la fatica di affinare la cultura di governo. Non è certo Meloni ad essere cambiata (“È sotto attacco la Patria, il valore più alto che tiene insieme tutti gli altri, perché è insieme comunità, confini, storia e identità”) per riconciliarsi con la modernità dei diritti e delle libertà. È al Corriere che in tanti sgomitano per partecipare alla festa della “reconquista” e per entrare nelle danze, tra sepolcri e altari, inventano una Meloni liberale di pura fantasia, pronta a codificare il “diritto di non abortire”.