In principio fu De Gasperi, dopo ci furono Moro, De Michelis, Andreotti, Frattini, Bonino, arrivando all’altro ieri, o quasi, a Gentiloni, Alfano, Moavero Milanesi e lui, Luigi Di Maio, il più giovane ministro degli Esteri della Repubblica Italiana.

Lo stesso ministro che, sul caso di Silvia Romano, sta tentando in ogni modo di recuperare autorevolezza sbagliando colpo su colpo. Le indiscrezioni lo hanno dipinto “furioso” con Conte per non essere stato informato dell’operazione quando, in realtà, questo è stato uno dei pochi segnali di serietà istituzionale in tutta la vicenda. L’operazione è stata condotta dai servizi segreti e coinvolgere la Farnesina avrebbe comportato un rischio di fuga di notizie inutile e dannoso. Ma a Di Maio sentirsi tagliato fuori non è piaciuto.

E così eccolo a Ciampino, la mascherina tricolore, a mettere in scena lo show mediatico più sbagliato degli ultimi tempi insieme al presidente del Consiglio. Lo stesso presidente Mattarella, assicurano fonti del Quirinale, non avrebbe gradito.

Ed ecco, di nuovo Di Maio, ad annunciare in diretta tv che a lui “non risulta che sia stato pagato un riscatto“. Come se la cosa potesse servire a rassicurare quella parte di opinione pubblica abbrutita! Del resto che a lui il riscatto non risulti è più che normale. I servizi segreti non hanno di certo chiesto la sua firma per autorizzare la nota spese del mese. Se li chiamano segreti, in fondo, un motivo ci sarà.

Ma quello di Di Maio è l’ennesimo tentativo maldestro, un po’ come i suoi viaggi in Cina, di vestire un Ministero che gli va largo. E come lui, in fondo ce ne sono stati altri, sopratutto in tempi recenti.

Fenomenologia di un dicastero, quello di Piazza della Farnesina, che nella sua storia ha cambiato volti e stazze, adattandosi, di volta in volta, al peso specifico di chi ne occupava il vertice. Un cambio di pelle accentuato dal mutamento del contesto internazionale e dall’agenda dei governi che, soprattutto negli ultimi anni, hanno assegnato via via competenze diverse a quello che, per molti aspetti, dovrebbe essere considerato un ministero cardine per qualsiasi Paese che punti a giocare un ruolo di peso nello scacchiere mondiale.

Ma facciamo un passo indietro, al 2014, a quando fu Paolo Gentiloni ad entrare, in corsa, al Ministero degli Esteri, prendendo il posto di Federica Mogherini, intanto nominata Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune a Bruxelles. Sono anni complessi: la nascita del governo di Al Sarraj in Libia con il sostegno dell’Onu, la crisi dei marò e il caso della morte di Giulio Regeni che mette a dura prova i rapporti tra l’Italia e l’Egitto, partner strategico dell’Italia e della vicina Francia. A Palazzo Chigi il presidente è Matteo Renzi, one man show e presenza straripante che monopolizza l’attenzione mediatica del Consiglio dei ministri. Eppure, nonostante la pacatezza e il basso profilo del titolare della Farnesina, il confine delle competenze è ben definito. Gentiloni è in prima linea, cura personalmente gli incontri con i leader stranieri, ha ottimi rapporti con il ministro degli Esteri tedesco Frank Steinmeier e con il segretario di stato dell’amministrazione Obama, John Kerry. Nel dicembre 2015 promuove la prima edizione di Rome med, dialoghi sul Mediterraneo. Certo, dal punto di vista strettamente pratico, l’evento non è risolutore ma mette allo stesso tavolo Kerry, il russo Sergei Lavrov, diversi ministri degli Esteri, il re di Giordania, esperti di antiterrorismo, accademici e alcuni dei principali stakeholder operanti nel Mediterraneo, da Eni a Finmeccanica.

La conferma dell’apprezzamento per il lavoro svolto allora da Gentiloni è la nomina a commissario europeo per l’Economia. Ma non solo. Quando nel dicembre del 2016 Renzi annuncia le sue dimissioni in seguito alla sconfitta alle urne del referendum costituzionale, Gentiloni risulta essere la scelta più naturale a Chigi per assicurare stabilità al governo.

Il suo posto viene quindi occupato da Angelino Alfano, fino a quel giorno al Viminale. Un cambio di poltrona interessante che coincide con un tacito scambio di dossier tra i due ministeri: la questione migranti e quella relativa alla stabilizzazione della Libia passano in toto al Viminale. Alfano la accarezza ma è evidente che gli sfugge mentre diventa elemento identificativo del mandato ministeriale di Marco Minniti, nuovo ministro dell’Interno. Il titolare della Farnesina, dal suo canto, è troppo occupato sul fronte, poco estero e molto interno, della gestione delle sue cangianti formazioni politiche. Trattenere i suoi parlamentari, preparare le armate per le Regionali in Sicilia richiede uno sforzo tale che la sua presenza internazionale latita. Di tanto in tanto riappare, “presenza decorativa” come lo definirono ambienti diplomatici, in qualche missione in Niger, Senegal. Tutti paesi che, di volta in volta, rappresentano, neanche a dirlo, “una priorità della politica estera italiana”.

Altro giro, altra corsa. La nascita del governo gialloverde, dopo le elezioni del marzo 2018, porta al Ministero degli Esteri Enzo Moavero Milanesi. Voluto dal Quirinale per placare le spinte “anti” e confuse dei due alleati di governo, Lega e Movimento Cinque Stelle, il diplomatico italiano ha il compito di rassicurare le cancellerie internazionali. In che modo? Evidentemente con la sola presenza. Sconosciuto ai più, non interviene nemmeno quando la situazione sembra scivolare verso lo scontro diplomatico, vedi l’affaire gilet gialli, il caso Battisti o la questione franco Cfa che portano il presidente francese a richiamare l’ambasciatore a Roma. Gli abiti di responsabile degli affari esteri italiani vengono indossati, a seconda dell’occasione, dai due contraenti di maggioranza Luigi Di Maio e Matteo Salvini.

Se il primo vola in Israele, Libia e Tunisia a stringere le mani di presidenti e ministri, il secondo va in Cina, firma accordi bilaterali, chiama il presidente Xi Jinping Ping e poi prende un aereo diretto verso Washington per ribadire che, Via della Seta permettendo, l’Italia è un alleato degli Stati Uniti.

Ed è proprio questo snodo, quello dei rapporti commerciali tra Italia e Cina e della One Belt road, a rappresentare la chiave di volta dell’avvicendamento alla Farnesina tra Moavero e Di Maio. La Cina, infatti, serve a Di Maio per evitare di essere confinato a figura silente e marginale, come il suo predecessore il quale, però, poteva almeno vantare una carriera diplomatica di tutto rispetto. Cosa che all’ex capo Cinque Stelle manca del tutto. Un po’ come l’eleganza e la conoscenza della prassi istituzionale. E negli ultimi giorni ce ne siamo accorti proprio tutti.