1. Stefano Anastasia è tante cose insieme: sociologo e filosofo del diritto; co-fondatore di Antigone e già presidente della Società della Ragione, due tra le realtà più vive nell’area del garantismo penale; membro delle direzioni di Democrazia e Diritto, Studi sulla questione criminale, Antigone, riviste che fanno del diritto punitivo un oggetto privilegiato d’indagine; Garante dei diritti dei detenuti delle regioni Umbria e Lazio.

Quando scrive di libertà personale, dunque, sa quel che dice: merita, per questo, la lettura. Vale anche per il suo ultimo libro, Le pene e il carcere (Mondadori 2022): antologia di suoi scritti ospitati altrove, ne rappresenta per questo un’autobiografia intellettuale dove rintracciare alcune costanti nella riflessione dell’autore.

2. Che cos’è davvero la pena? La risposta è il primo fil rouge del libro, denudata da ogni ideologia che è sempre falsa coscienza del reale. Il filosofo/sociologo del diritto, infatti, incarna il sosia critico del giurista positivo che, guardando al dato legislativo, si espone al rischio della fallacia normativistica. Il primo, invece, guarda a ciò che è, non a ciò che dovrebbe normativamente essere o si vorrebbe che fosse o si racconta che sia.

L’art. 27, comma 3, Cost. parla di «pene» al plurale? Anastasia, invece, ritiene l’area penale esterna al carcere «ancillare, subordinata, secondaria, al moloch penitenziario» che resta la «pietra angolare dell’intero edificio penalistico». L’art. 27, comma 3, Cost. finalizza le pene alla rieducazione del condannato e al rispetto della sua dignità? Anastasia, invece, ci racconta di una pena che – in asse con il suo etimo – è solo sofferenza: corporale (perché «dà dolore fisico e psichico e produce malattia»), esistenziale (perché «finalizzata alla dissipazione del tempo vitale del condannato»), psicologica (perché travolge la sfera relazionale e affettiva del reo, fino «all’annichilimento dell’autostima e della considerazione di sé»).

In questa «insuperabile» antinomia con il dettato costituzionale, Anastasia coglie la conferma al proprio disincanto: i Costituenti volevano una pena rieducativa e mai contraria al senso di umanità proprio «perché sapevano che così non era». A suo avviso, il dover essere non potrà mai coincidere con l’essere della pena perché la Costituzione è fondata sull’universalità dei diritti, mentre l’istituzione totale penitenziaria, «nella realtà della sua esperienza», reprime i bisogni umani del recluso.

3. Altra costante nel libro è la dimensione temporale della detenzione che Anastasia chiama «pena del tempo perso». Infatti, diversamente da quello astronomico, il tempo biografico «si misura nell’accumulazione delle esperienze». Privato della libertà personale, inchiodato a un eterno e immutabile presente, il detenuto assiste all’irrimediabile sciupìo del proprio tempo esistenziale. È una perdita di sé irrecuperabile per l’ergastolano, specie se ostativo. Non sorprende allora che l’autore recuperi argomenti che, nel 1998, il filosofo Aldo Masullo, all’epoca senatore, spese a favore di un disegno di legge abrogativo dell’ergastolo: «la domanda che ci dobbiamo porre non è se esso vìoli o non vìoli il sacrosanto diritto alla vita, ma se vìoli il diritto dell’uomo all’esistenza, che è cosa distinta».

Anche qui Anastasia polemizza con «l’ottimismo della pena medicinale» che «aspira alla memorabile ricchezza del tempo pieno del nuovo inizio». Ma se la pena in action è una perdita di tempo, come può mai servire a un reinserimento sociale? Prima ancora, come se ne può serbare memoria, riducendosi ad assenza di esperienze?

4. Trasversale alle pagine del libro è anche la dimensione spaziale della pena. Salvo tre temporanei intervalli (2006-2008 per gli effetti dell’indulto; 2013-2015 per i rimedi imposti dalla sentenza Torreggiani c. Italia della Corte EDU; 2020-2022 grazie alle misure deflattive imposte dall’emergenza pandemica), è dagli anni ’90 che per designare lo spazio carcerario siamo costretti ad usare il superlativo di un superlativo: sovraffollamento.

Il libro ne squaderna le cifre. Scatta la fotografia di questa massa “pressata”: stranieri, tossicodipendenti, senza fissa dimora, malati di mente. Come mai «l’incremento della gran parte della popolazione detenuta è determinata dalla marginalità sociale»? Anastasia scarta le spiegazioni «naturalistiche» (+criminalità = +detenzione) perché smentite dalle statistiche sui reati in calo. Scarta le spiegazioni «normativistiche» (+ricorso al diritto penale = +detenzione) perché insufficienti a determinare il fenomeno. Propende, semmai, per una spiegazione multifattoriale che guarda alla crisi del sistema di welfare, alla domanda diffusa di controllo sociale e, infine, all’uso populistico del diritto e della giustizia penale.

Anche qui, smaschera il volto della pena svelandolo inumano e degradante: il sovraffollamento carcerario, infatti, non è assenza di spazio, semmai eccesso di presenze in spazi già saturi. È, dunque, una premoderna pena corporale. Per la Consulta, finalismo rieducativo e divieto di trattamenti inumani formano un «contesto unitario non dissociabile» in quanto «in funzione l’uno dell’altro» (sent. n. 279/2013). Anastasia, invece, contesta l’assunto nella sua «consecutio logica» perché «la pena può essere legalmente eseguita senza conseguire una efficace “rieducazione” del condannato, ma non lo può mai essere in presenza di trattamenti contrari al senso di umanità». L’umanità della pena, dunque, non è ancillare alla rieducazione rappresentando – a un tempo – l’«elemento di compensazione alla sua insufficienza» e l’«architrave della residua legittimità del sistema penitenziario».

5. Al c.d. populismo penale il libro dedica un riuscito capitolo. Come Eva da Adamo, nasce da una costola del populismo: fenomeno più generale di cui Anastasia descrive l’ideologia, lo stile discorsivo, la strategia politica. È l’habitat nel quale il diritto penale smette la sua funzione garantista di limite al potere punitivo per essere finalizzato «a guadagnare voti piuttosto che a ridurre i tassi di criminalità o promuovere giustizia».

Con indubbie capacità analitiche, Anastasia squaderna gli strumenti di cui si serve il populismo penale. Sono, innanzitutto, strumenti culturali: la «glamourizzazione del fenomeno criminale» (le serie televisive, la voyeristica attenzione per la cronaca nera); la «destatisticalizzazione» del fenomeno criminale (perché a contare è l’insicurezza percepita, anche se smentita dai dati reali); «il ricorso alla bandiera delle vittime» (asso retorico pigliatutto). Sono, poi, strumenti giuridici: un’ossimorica emergenza quotidiana (guerra al crimine, alla droga, al terrore); la creazione di un “doppio binario” (processuale, probatorio, penitenziario) che si spinge fino a legittimare un diritto penale del nemico (cui negare le garanzie costituzionali); la moltiplicazione dei reati; la riscoperta delle pene massime e di quelle capitali; la rigidità dell’esecuzione penale (all’insegna di un frainteso principio di certezza della pena).

Così radiografato, il populismo penale «può essere sia “di destra” che “di sinistra”, sia “progressista” che “conservatore”». Dipende dal target preso di mira: le elites per la sinistra; gli extranei per la destra. Dipende dalla funzione che assolve: stabilizzare il consenso, se si è al governo; prefigurare nuovi equilibri politici, se si è all’opposizione. Con il consueto disincanto, Anastasia ci avverte che vivremo ancora a lungo con questo mostro «proto-liberale» di stampo hobbesiano. E ce ne spiega il motivo: allocate altrove le scelte fondamentali di politica economica e sociale, il populismo penale residua quale «principale strumento di legittimazione sociale a disposizione delle istituzioni nazionali».

6. Chiuso il libro, benché avvisati fin dalle pagine iniziali («non c’è un lieto fine a quel che scrivo»), si può essere presi dallo sconforto. È qui che – per la prima e unica volta – smetto i panni del lettore per rivestire quelli propri del costituzionalista. Da giurista positivo, vorrei ricordare che – nonostante tutto – qualcosa di diverso e di importante è accaduto in questi anni. L’abolizione costituzionale della pena di morte. L’adesione alla Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità. La chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari. Il messaggio alle camere del Presidente Napolitano sulla situazione delle carceri e della giustizia penale.

L’introduzione, comunque, del reato di tortura. L’istituzione del Garante Nazionale dei diritti dei detenuti. Il viaggio nelle carceri dei giudici costituzionali. Le sentenze delle Corti dei diritti, in tema di sovraffollamento carcerario, ostatività penitenziaria, proporzionalità sanzionatoria, principio di irretroattività delle norme incidenti sulla natura della pena. La giurisdizionalizzazione dei diritti negati ai detenuti. La possibilità per il giudice di cognizione di irrogare pene diverse dalla reclusione in carcere. Tutto ciò è stato possibile prendendo sul serio quel disegno costituzionale del diritto punitivo con cui Anastasia polemizza. Lo fa perché – per statuto professionale – privilegia il campo di esperienza della pena (la sua regolarità), mentre il costituzionalista ne valorizza l’orizzonte di senso (la sua regola iscritta nell’art. 27, comma 3). Regola e regolarità, però, non vanno mai confuse.

Tra le due c’è una differenza di natura e di grado giuridico, e il fatto – per quanto ripetuto – non può mai scalzare il dato costituzionale, almeno in uno Stato di diritto a Costituzione rigida e garantita. Ecco perché, specialmente nelle situazioni più difficili e apparentemente irrimediabili, bisogna esigere dallo Stato il rispetto della sua stessa legalità, almeno se crediamo nel governo delle leggi e non degli uomini (o di una donna). Se c’è una via d’uscita da un presente che non ci piace, passa di qua.