Nell’oceano sempre in burrasca della politica italiana naufragano i lavori delle commissioni ministeriali. A volte annegano, altre volte si arenano, ma quando riprendono a navigare il loro destino è già segnato. Lo scampato pericolo si ripropone e, quasi sempre, affogano. Compito della commissione è quello di esprimere pareri, dei quali dovrebbero fare tesoro gli uffici legislativi dei Ministeri, che a loro volta propongono ai ministri l’elaborato finale, il cui destino è del tutto incerto.

Si ha l’impressione che il decreto che istituisce la commissione sia uno stratagemma per prendere tempo, laddove la politica non ha ancora le idee chiare su come intervenire ovvero vi sia un contrasto, o una possibilità di contrasto, tra le varie componenti governative. Ciò è avvenuto certamente per la riforma dell’ordinamento penitenziario. Dopo la sentenza Torreggiani della Corte Europea dei diritti dell’uomo dell’8 gennaio 2013, il Governo e il Parlamento, in carica all’epoca, furono costretti, nel senso letterale del termine, ad intervenire e “risposero” al Consiglio d’Europa, che pretendeva mutamenti strutturali in materia di esecuzione penale, con gli Stati Generali. Diciotto mini commissioni che licenziarono un ottimo lavoro per consentire il richiesto cambiamento.

Anni di costante impegno da parte di oltre 200 esperti a cui seguì la Legge delega al Governo per varare la dovuta riforma e l’istituzione di ben tre commissioni ministeriali. Tutto questo immenso e significativo lavoro non si è poi tradotto nella richiesta riforma, ma è stato utilizzato come cortina di fumo che ha consentito all’Italia di ottenere l’archiviazione della procedura d’infrazione da parte dell’Europa . Vittime di questa scelta politica furono – e sono – i detenuti, ma anche tutti coloro che, con entusiasmo e passione, misero il loro “sapere” a disposizione del Paese. Oggi, a circa 9 anni da quella sentenza, sono al lavoro altre due commissioni. Una per “l’architettura penitenziaria”, istituita nel gennaio 2021 dal precedente Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede, con il compito di proporre soluzioni operative per adeguare gli spazi detentivi, aumentarne la vivibilità e la qualità, al fine di orientare le future scelte in materia di edilizia penitenziaria.

L’altra per “l’innovazione del sistema penitenziario”, istituita nel settembre scorso dall’attuale Ministro della Giustizia Marta Cartabia, con il compito, già affidato e portato a termine dalla commissione presieduta dal professor Glauco Giostra nel luglio 2017, di elaborare quanto necessario per riformare l’ordinamento penitenziario. Pur se il nome dato alla neo-commissione fa riferimento ad “innovazione” e non a “riforma”, il testo del decreto istitutivo non lascia alcun dubbio sulle identiche competenze. Del resto, anche in materia di edilizia penitenziaria, la commissione Giostra aveva affrontato i temi dello spazio della pena e della vita in carcere. Argomenti di studio e di prospettate soluzioni degli stessi Stati Generali dell’esecuzione penale. Dunque, ancora molto fumo e pochissimo arrosto! Intanto gli istituti penitenziari restano abbandonati e i principi costituzionali dimenticati. È notizia recente il crollo di un muro perimetrale nel carcere femminile di Pozzuoli, ma la situazione è allarmante in tutta Italia.

A Firenze, ad esempio, l’istituto di Sollicciano da anni ha irrisolti problemi strutturali e di manutenzione. Le condizioni di vivibilità sono, nella maggior parte dei casi, vergognose: mura fatiscenti, docce assalite dalla muffa, scarafaggi e topi ospiti abituali, caldo insopportabile d’estate e freddo glaciale d’inverno. Tutto questo in condizioni di ingestibile sovraffollamento. La “rieducazione” è una lontana chimera, perché del resto basta farli sopravvivere, pur se la media di decessi in carcere è di un morto ogni due giorni e molti sono i suicidi. C’è da chiedersi, allora, se davvero si vuole affrontare tutto questo, c’è bisogno davvero di commissioni? Non basta un Ministero, con la sua mastodontica organizzazione, un Dipartimento centrale e i Provveditorati regionali, con tutte le innumerevoli direzioni che avrebbero il compito della gestione amministrativa del personale e dei beni dell’amministrazione penitenziaria e i compiti previsti dalla legge per il trattamento dei detenuti?

Evidentemente non sono in grado di farlo pur avendo senz’altro le necessarie potenzialità. Ed allora, è dall’interno che è necessario muovere i passi di una seria, vera e concreta riforma. Rivoluzionare il sistema, prendere atto del fallimento di tutti questi anni, porsi in tutt’altra prospettiva che altro non è che quella indicata dalla Costituzione. Farlo subito, farlo ora, con le risorse economiche in arrivo, che non sono molte e, pertanto, non vanno sprecate ricadendo nei tragici errori del passato. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria va rifondato da un punto di vista culturale e organizzativo per affrontare davvero le innumerevoli problematiche che affliggono il carcere, che va visto come condanna estrema destinata solo a pochissimi casi, mentre devono trovare spazio pene diverse. Gli avvocati lo dicono da tempo, la strada è stata già tracciata, occorre percorrerla eliminando il fumo e la nebbia che la circonda.