Ulteriore carcere, come deterrente e rimedio per più ordine e sicurezza, è proposta governativa di questi giorni che non risolve e svia. I contrari sono colpevoli di avere, nei fatti, tradito valori e principi tanto sbandierati, lasciando che la deriva del carcere che avevano in carico continuasse e non fornendo provviste strutturali sul territorio per una pena alternativa. Paradossalmente, vi sono più imputati e condannati fuori che dentro il carcere.

Come i dati dimostrano, il carcere non sconfigge il crimine e non abbassa la recidiva; come l’evidenza scientifica conferma, l’introduzione di nuove pene e l’inasprimento di quelle esistenti, in line di massima non diminuiscono i reati e non aumentano la sicurezza. Il tasso di recidiva nel nostro Paese sfiora il 73%.Devianza e criminalità si risolvono fuori del carcere, ragionevolmente facendosi carico di una massiccia azione preventiva e di sostegno al disagio sociale. Il segnale dato dalla premier Meloni al suo esordio, di efficacia e di chiarezza su un tema come quello del rispetto delle regole, rimanda a quella che parrebbe essere una persistente violazione della nostra Costituzione nelle carceri.

Da tempo mi occupo di architettura penitenziaria, più volte ho partecipato ai lavori ministeriali sulle questioni carcerarie. Ritengo spetti a me evidenziare criticità materiali e contraddizioni del carcere, in rapporto al monito costituzionale: «Le pene non possono consistere a trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Le nostre carceri infrangono il senso di umanità dell’individuo, perché progettate senza metterlo al centro, con i suoi bisogni materiali, psicologici e relazionali. Sono luoghi sovraffollati e degradati, spesso carenti di spazi per le attività trattamentali risocializzative.

L’Italia, per lo stato delle sue carceri, è stata recentemente per due volte condannata dalla Corte di Strasburgo, per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che proibisce la tortura e il trattamento o pena disumana o degradante. Nella sentenza del 2013 è stato messo in rilievo che la vita detentiva non può risolversi nell’ozio e nell’abbandono, come accade sistematicamente nelle nostre carceri, carenti di educatori, psicologi, assistenti sociali, mediatori culturali, come la legge prevede.

Comprensibilmente le opportunità di lavoro sono minime, gli agenti penitenziari e le figure professionali di sostegno operano in condizioni critiche, anche per la qualità dell’ambiente materiale nel quale operano. Il rischio di nuove condanne è reale. Il nostro carcere è una discarica sociale in crescita e non un luogo di riabilitazione, inadatto per fornire sicurezza fuori perché criminogeno, ricettacolo di una umanità derelitta, sradicata, malata e debole, in carico ad un personale carente di strumenti e mezzi e per questo inadeguato. Nei suoi edifici permangono i tratti della pena afflittiva di un tempo, superata da quella della Costituzione e dell’ordinamento penitenziario del 1975, entrambe tradite.

Il sovraffollamento nelle carceri è una condizione pressoché generalizzata; la popolazione attualmente detenuta si avvicina alle 55.000 unità, le strutture detentive sono circa 190, i posti disponibili 50.000. Per realizzare e mettere in funzione un carcere in Italia non bastano 10/15 anni; le nuove carceri di Bolzano, Nola, San Vito al Tagliamento, Casale Monferrato, programmate da molti anni, sono “al palo”. Promettere subito nuove carceri è ingiusto e sviante. Per il momento sarebbe opportuno accantonare l’idea di costruire nuove carceri e concentrarsi sulla ristrutturazione di quelle esistenti. Nel contempo avviare soluzioni spaziali sul territorio che favoriscano l’uso di misure alternative al carcere, nel quadro di una decisa azione di prevenzione. Le difficoltà non mancano: le edificazioni necessarie e la loro messa in funzione, richiedono tempo e denaro consistenti, le caratteristiche della popolazione che viola la legge è in buona parte priva di legami familiari e di relazioni sociali che rendono a volte impossibile l’applicazione delle misure alternative.

La cosa non preoccuperebbe, se la compagine di governo attuale e quelle che verranno, sapessero muoversi mettendo da parte le convenienze elettorali, mirando alla sostanza dei problemi. Si chiarisca sin da subito se si vuole un carcere ospizio/ospedale da 70.000 detenuti, sempre più stracolmo, dove rinchiudere una umanità eterogenea e disperata, irrimediabilmente esclusa ed emarginata, oppure uno da 10.000 detenuti, rispettoso della dignità umana e destinato a rinchiudere esclusivamente soggetti pericolosi e tendenzialmente irrecuperabili. La pena deve essere giusta e utile, e prospettata nella sua applicazione non per colpire la “pancia”, ma bensì il cervello della gente. Fughiamo la convinzione che la nostra sicurezza possa dipendere dal “pugno di ferro”, “gettare via la chiave” e “lasciare marcire in galera”. Aspirare a tutto ciò rende ingenui, rimanere in silenzio colpevoli e complici.