Può essere utile guardare alla politica italiana facendo un confronto con quella dei più importanti partner dell’Unione europea, in particolare, la Francia, la Germania e la Spagna.
Un tratto comune, al di là dei diversi sistemi costituzionali e leggi elettorali, è la frammentazione del sistema dei partiti, che negli ultimi anni ha colpito anche la vita politica tedesca che per decenni aveva ruotato intorno a tre forze (i cristiano democratici, i social democratici e i liberali) e ne vede ormai la presenza di almeno sei o sette (la Csu bavarese) rilevanti.
La prima e forse più importante conseguenza di ciò è il ricorso praticamente inevitabile a governi di coalizione (o come ora in Francia di minoranza). Sembra infatti che nessuna formula elettorale, ormai nemmeno quella francese (uninominale a doppio turno) sia in grado di garantire la maggioranza parlamentare ad un solo partito.

In secondo luogo si può osservare che, in forme diverse nei quattro paesi qui in esame, alla competizione fra partiti di destra e partiti di sinistra, che corrispondono sempre meno al conflitto fra borghesia e proletariato, si è aggiunta e sovrapposta quella fra forze politiche moderate, nel senso di liberal-democratiche e europeiste, da un lato, e forze radicali e nazional-sovraniste, dall’altro, le quali ultime possono essere, per usare il linguaggio tradizionale, di destra oppure di sinistra (o almeno si qualificano come tali). Si osservi che, da questo ultimo punto di vista, l’unica rilevante eccezione è stato il M5S italiano – ridotto ormai ai minimi termini – il quale si è finora definito come attore politico trasversale: “né di destra né di sinistra”.
Il peso delle forze che chiamiamo radicali è, però, molto diverso da un paese all’altro. Esse, Alternative für Deutschland e Die Linke, sono molto deboli in Germania: alle ultime elezioni del 2021 infatti hanno raggiunto, tutte e due insieme, a stento il 16% dei suffragi espressi, mentre in Francia, la NUPES di Mélenchon e il Rassemblement national di Marine Le Pen, hanno ottenuto nel 2022 il 49% dei voti al secondo turno delle elezioni per l’Assemblée nationale. In questi due paesi, peraltro, le forze radicali non hanno mai vinto le elezioni (in Francia) o partecipato (in Germania) ai governi nazionali, dopo la Seconda guerra mondiale.

In Spagna l’estinzione della sinistra radicale del vecchio partito comunista ci può far considerare come partiti estremi a destra Vox che ha conquistato alle ultime elezioni il 15% e a sinistra Podemos, quasi 13%, ora meno radicale e alleato con il Partito socialista di Pedro Sanchez.

Per quanto riguarda l’Italia il quadro, come accade spesso, è al tempo stesso più mobile, intricato e confuso, specialmente a partire dagli ultimi anni. Le elezioni del 2013 e ancor più del 2018 hanno visto il successo del M5S – né di destra né di sinistra – ma schierato su posizioni confuse e radicali. Il movimento di Grillo ha fatto parte di tutti e tre i governi della legislatura. Ma ha avuto un formidabile declino se si guarda ai sondaggi sulle intenzioni di voto. È infatti passato dal 32,68% del 2018 a valori che secondo gli ultimi sondaggi sembrano poter essere inferiori alle due cifre. Sta ai lettori ed al Movimento giudicare le ragioni di tale declino. Forse il semplice fatto di essere passati dalla radicale opposizione al governo e al sistema della democrazia rappresentativa (Vaffa!) alla partecipazione stabile a tutti i governi del paese. Il neo leader del Movimento, Conte, è stato due volte primo ministro.
Sul fronte di destra FdI e la Lega di Salvini si sono in passato attestate su posizioni nazionaliste, come manifestano le loro pregresse alleanze con le forze sovraniste dei paesi europei, in particolare quella del governo illiberale (come si autodefinisce) del filorusso Viktor Orban. Mentre però la Lega ha partecipato a due dei governi della legislatura che sta per finire, il partito di Giorgia Meloni è sempre stato all’opposizione passando dal 4,3% del 2018 al quasi 25% secondo i recenti sondaggi.

Le intenzioni di voto, e vedremo se anche i voti, sembrano premiare chi sta all’opposizione, almeno finché ci resta. Governare risulta tuttavia essere un rischio per un partito che si assuma tale compito. Meloni ha l’intelligenza di capirlo, anche perché si tratta per lei di una esperienza largamente inedita e una prova del fuoco.
La Lega nazionale di Salvini in questa prospettiva, quella della partecipazione al governo (Conte 1 e Draghi), ha pagato un prezzo abbastanza alto, che ha favorito la crescita del partito di Meloni: dopo il 19,6% del 2018 e il 34% delle Europee del 2019 il partito vale oggi nei sondaggi intorno al 13%.
Forza Italia, a lungo grazie a Berlusconi la forza dominante di tutte le coalizioni di centro destra dal 1994 in poi, è, come il suo leader, esausta. Perde pezzi e deve accettare l’egemonia elettorale dei suoi vecchi alleati, un tempo minori, anche se spera di mantenere posizioni di potere in seno alla alleanza grazie alla proclamata garanzia di europeismo che offre ad una coalizione dominata da forze tradizionalmente euroscettiche.

Sull’altro fronte dello schieramento, la confusione, ancor più che le differenze interne, è maggiore. Falsificando in certa misura quello che ci era parso di poter dire fino al ripensamento di domenica di Calenda, non c’è più una alleanza dei riformisti. Il tentativo di aggregare micro-forze radicali, come spinge a fare la presenza trainante dei collegi uninominali nel sistema elettorale, ha fatto fallire il tentativo di campi larghi; come era già fallita la possibilità della coalizione fra PD e M5S a causa della ostilità del partito di Conte nei confronti delle politiche del governo Draghi, da quelle energetiche al rapporto con la resistenza ucraina all’aggressione russa.
In alternativa piccoli centri crescono. In attesa pare di tempi migliori per i riformisti, quando e se riusciranno a creare una forza sufficientemente ampia in grado di respingere alla opposizione i partiti radicali e sovranisti, come è accaduto in Germania e in Francia.

Renato Mannheimer e Pasquale Pasquino

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