Matteo Orfini, parlamentare dem, già presidente del Partito democratico. Il Congresso costituente rischia di ridursi al posizionamento dei maggiorenti del partito su questo o quel candidato alla segreteria. È allarme rosso per il “nuovo Pd”?
Sicuramente è un congresso diverso dagli altri. Nel senso che la situazione del Pd è più grave. Noi abbiamo subito una grave sconfitta politica alle elezioni. Ha vinto una destra che ha costruito la sua vittoria culturalmente e politicamente nel Paese. E poi perché il ruolo storico del Pd, quello che noi stessi abbiamo immaginato quando lo fondammo, è messo in discussione oggi. Perché è insediato da altre due forze – il Movimento 5 Stelle e il Terzo polo – che a volte sembrano fare opposizione più al Pd che alla destra. E perché anche dentro il Pd oggi c’è chi pensa che non si possa tornare più ad un grande Partito democratico come lo abbiamo pensato e che quella funzione storica sia ormai superata. È chiaro che il combinato disposto di tutte queste cose mette a rischio l’esistenza stessa del Pd. Per questo il Congresso è ancor più importante. Perché noi dobbiamo costruire la rinascita del Partito democratico. Io penso che un congresso è l’inizio di una fase di ricostruzione e di rifondazione. Una fase che sarà lunga. È dentro il lavoro di opposizione che noi ricostruiremo il Pd. E lo stiamo già facendo. Io lo so che è poco percepibile, perché siamo in una fase di transizione, c’è il congresso, siamo in attesa di un nuovo gruppo dirigente. Però le battaglie che stiamo conducendo in Parlamento, le notti a tenere lì il Governo per provare a cambiare la legge di Bilancio, per bloccare il decreto rave, per difendere le navi delle Ong, sono già degli elementi rifondativi. Perché dall’opposizione definisci una gerarchia delle priorità su cui combattere. In quelle battaglie di opposizione ci sarà la rinascita e la rifondazione del Pd, se sapremo farle bene. Quello che ho suggerito a tutti i candidati è di vivere questa campagna congressuale anche come fosse un pezzo della battaglia di opposizione, cioè di mettersi da candidati già alla guida dell’opposizione al governo Meloni.

Dario Franceschini nel sostenere la candidatura di Elly Schlein ha affermato che è tempo che la vecchia generazione di dirigenti si faccia da parte per favorire il rinnovamento.
Quello di Franceschini mi sembra un tentativo un po’ strumentale di non discutere di politica. In questa discussione congressuale sembra che noi dobbiamo cambiare tutto tranne la linea politica che c’ha portato al disastro. Una linea che Franceschini, come altri, ripropone. La sfiducia che il Pd possa convincere gli elettori e che quindi possa salvare se stesso solo nella ricerca di alleanze più o meno naturali o innaturali, che è stata in questi anni la cifra della segreteria Zingaretti e purtroppo anche di quella di Enrico Letta. La rinuncia a un profilo identitario del Pd in nome della ricerca di alleanze che poi neanche si è riusciti a fare. Oggi Dario ripropone di fatto quella linea, sostenendo che noi abbiamo il merito di aver spostato i 5Stelle nel campo del centrosinistra. Ho visto che la stessa cosa ha detto Goffredo Bettini, più o meno con le stesse parole. Io ho un dubbio che vorrei girare a Franceschini e Bettini…

Lo faccia dalle colonne de Il Riformista.
Ma cos’è che definisce l’appartenenza ad un campo? Una intervista di Franceschini e Bettini o una scelta politica? Perché io registro che nelle elezioni politiche l’M5S ha rotto di fatto l’alleanza con noi, favorendo la vittoria del centrodestra, e la stessa cosa sta facendo nel Lazio, rompendo l’alleanza con noi. Poi lì non riuscirà a far vincere il centrodestra, perché D’Amato vincerà le elezioni regionali, però sicuramente complica. Quella strategia ha sacrificato l’identità del Pd al rapporto con i 5Stelle. In questo modo siamo diventati un partito assolutamente evanescente nel profilo identitario e in più non ha prodotto alcun risultato elettoralmente utile, fin qui solo guai. È stato un fallimento totale. Noi possiamo pure rinnovare tutta la classe dirigente ma se lo facciamo mantenendo la linea del disastro produciamo un altro disastro.

La linea, l’identità, tutto ok. Ma lei, alla fine, con chi si schiera nella corsa alla segreteria Pd?
Per tutto quello che ho provato a spiegare, voterò Bonaccini. Perché in una situazione del genere mi sembra la soluzione più solida. Lo dico con tutto il rispetto e anche l’affetto per gli altri candidati, perché candidarsi alla guida del Pd in un momento così complicato è comunque un merito. Quella di Bonaccini mi sembra la soluzione più solida e anche quella che consente di ricostruire un Pd che abbia l’ambizione di tornare ad essere quello che abbiamo fondato. Mi lasci aggiungere, infine, che non mi ha mai convinto l’idea che la sinistra nel Pd ne sia solo un pezzo. La parola “sinistra” non può essere chiusa in una sola parte del Pd. Il Pd deve essere un partito di sinistra e credo che ci sia un grande spazio dentro la candidatura di Bonaccini per portare idee, battaglie di sinistra e renderle non battaglie di una minoranza del Pd ma di tutto il partito. E questo proverò nel mio piccolo a fare.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.