Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, scrive questo giornale: “Torna Salvini e torna puntuale la stagione dei porti chiusi e della guerra alle navi umanitarie, con un’azione concertata tra il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ed il collega all’Interno Matteo Piantedosi”. Siamo tornati indietro nel tempo, ai famigerati decreti sicurezza?
Il rischio è quello. Mi sembra che da subito ci sia un’asse di sintonia tra il ministro delle Infrastrutture e il ministro dell’Interno e che quindi il ritorno a quella legislazione così negativa sia possibile. Tra l’altro nella presentazione del programma di Governo il tema è entrato e si è riproposta la linea tipica di questi ultimi anni e cioè esternalizzare, portare sempre più nel cuore dell’Africa la frontiera dell’Unione Europea con l’obiettivo di allontanare sempre di più e rendere meno visibile un fenomeno che non è arginabile semplicemente arretrando le frontiere, Questi continui tentativi di esternalizzare proprio nel momento in cui quaranta e più organizzazioni scendono in piazza per dire no a quel modello, no a una cooperazione con gli Stati che produce crimini e proprio mentre il 2 novembre, non a caso il giorno dei morti, si rinnoverà probabilmente l’accordo con la Libia, s’insiste su questo tema: esternalizzare a qualunque costo, compresi i costi umani.

Nel discorso d’insediamento alla Camera della presidente Meloni non c’è stato alcun riferimento a un tema caro non solo ad Amnesty International, quello del rispetto e della difesa dei diritti umani.
Come è noto Amnesty International aveva presentato a tutti i leader e a tutte le leader nella campagna elettorale un’agenda in 10 punti sui diritti, dal titolo “Sui diritti umani non si torna indietro”. Certamente nel discorso programmatico non c’è stato alcun riferimento ad avanzamenti nel campo dei diritti. Vigileremo che non ci sia nessun arretramento. Nella campagna elettorale, nelle interviste, in altri momenti, persone che si candidavano ad avere ruoli di Governo hanno detto delle cose che potrebbero aver preoccupato ma noi, come Amnesty International, guarderemo all’attuazione del programma adesso.

Uno dei primi colloqui da neo premier Meloni lo ha avuto con il presidente dell’Egitto Abdel Fattah al-Sisi, nel quale si è auspicato da parte della prima ministra un rafforzamento della cooperazione tra Italia ed Egitto nel campo dei diritti umani. E Giulio Regeni?
Quella frase può essere interpretata anche in un senso positivo. Naturalmente quella frase si commenta per averla letta. Come sempre bisognerà poi vedere come verrà attuata questa cooperazione sui diritti umani. Se ne pretenderà il rispetto o si crederà alla cosiddetta “strategia nazionale” sui diritti umani adottata dall’Egitto un anno fa e che è un’operazione puramente cosmetica. Ci sono questioni nelle relazioni Italia-Egitto che devono avere la massima priorità. Ottenere i quattro domicili degli imputati per il sequestro e l’uccisione di Giulio Regeni è una. Premere perché il cittadino britannico Alaa Ab el-Fattah che è giunto ormai a quasi 110 giorni di sciopero della fame sia scarcerato. Chiedere che finisca la persecuzione giudiziaria del cittadino onorario di cento e più Comuni italiani Patrick Zaki. Queste sono le cose su cui misureremo il significato autentico di quella frase sulla cooperazione nel campo dei diritti umani.

In precedenza faceva riferimento al famigerato Memorandum d’intesa Italia-Libia. Alla Camera tranne alcune eccezioni, nessuno, né dalla maggioranza né dalle opposizioni, ne ha accennato. C’è una unità nazionale su questo?
Temo di sì. Perché se noi valutiamo il periodo di tempo di vigenza di questo Memorandum, scopriamo che ha molti padri e molte madri. È nato dal ministro dell’Interno dell’epoca, Minniti, portato avanti da più governi e probabilmente si rinnoverà anche sotto questo. La primogenitura di questo patto rende complicato contrastarlo anche dall’opposizione, tant’è che già in passato, nel precedente rinnovo erano stati sì e no una quarantina i deputati vicini alla richiesta di cancellare questo Memorandum. Io spero che questa volta siano di più. Sarebbe una testimonianza importante che all’interno del Parlamento non tutti sono d’accordo col fatto che l’Italia continui ad essere complice di crimini di diritto internazionale.

Il 5 novembre a Roma ci sarà una manifestazione nazionale per la pace. Anche sul tema della guerra in Ucraina, tranne importanti ma rare voci critiche, sembra esserci una sintonia ultra maggioritaria. Come la mettiamo?
Anche in questo caso c’è stata un’ampia maggioranza sotto il precedente Governo che ha deciso di inviare armi all’Ucraina e via via ha confermato quella posizione. Le voci che si levano a favore della pace sono voci nobili, autorevoli. Dico una cosa ovvia: nessuno è a favore della guerra e tutti si dicono a favore della pace. Bisogna però vedere che tipo di pace è. Che si realizzi una pace senza giustizia, non credo che la si possa definire pace. Ritengo che la concretezza della parola pace la si misuri con l’accompagnamento a quella parola di un’altra altrettanto nobile che è giustizia.

Papa Francesco ha ripetuto anche in questi giorni un concetto che fa fatica ad entrare nel dibattito politico italiano: siamo già dentro una Terza guerra mondiale.
È come se la si rimuovesse. Se noi fossimo in Medio Oriente o nell’Africa sub sahariana ci saremmo dentro da anni, forse da decenni in questo presente in cui la minaccia della guerra è concreta anzi si attua la guerra. È come se noi pensassimo che siccome siamo l’Europa non potremmo mai finire in questa situazione. In realtà ci stiamo già dentro. Quello che dice il Papa è corretto ma sembra quasi di essere in una sorta di rimozione collettiva di questa situazione.

“Inclusione”. È una parola bandita dal vocabolario politico italiano?
Vedremo l’attuazione del programma del neonato Governo. Certo è che questa parola non la sentiamo spesso. Sentiamo a volte, troppe, avanzare parole opposte, esclusione emarginazione. E questo non riguarda soltanto i cittadini stranieri. Riguarda le povertà italiane, riguarda il diritto all’istruzione, riguarda il lavoro precario, il lavoro sfruttato. Se noi escludiamo queste categorie di persone vulnerabili, penso alle persone Lgbtqia+, usciamo da questa dimensione per cui l’inclusione e l’esclusione riguardano il rapporto tra autoctoni e stranieri. C’è anche quello. Però c’è necessità, non meno pressante, di includere categorie vulnerabili delle quali fanno parte italiani e stranieri vittime di sempre più crescenti e laceranti diseguaglianze sociali.

I porti chiusi. Che segnale viene dato a quell’umanità disperata che scappa da guerre, disastri ambientali e sfruttamento assoluto?
Un segnale feroce di disinteresse e di cinismo. Come se le loro sorti non ci riguardassero perché c’è di mezzo un mare. Quella è la “Fortezza”. Quando si parla, come è stato detto nella presentazione del programma di Governo, della terza fase di “Sophia”, la missione dell’Unione Europea. Quella era la parte di missione che riguardava tutto tranne il soccorso in mare. Il rischio è che queste due parole, ricerca e soccorso di vite umane, non ci siano più. E ci sia altro. Ci sia il pattugliamento, ci sia respingimento. Ci sia il Memorandum Italia-Libia che continua a fare il suo dannato lavoro. Ci sia questa idea che è stata presentata dalla prima ministra con una frase indubbiamente efficace, chi entra non lo decidono gli scafisti o i trafficanti, che però sottende il discorso, sempre quello, dell’esternalizzazione. Alla fine, se noi portassimo all’estremo questo discorso, porti chiusi il che vuol dire persone lasciate in mare, ed esternalizzazione, ci troveremmo a far coincidere la frontiera dell’Unione Europea con i luoghi da cui le persone cercano di fuggire. Il disegno è questo.

Non è che parlare di una riproposizione della missione “Sophia” sia un modo “soft” per riproporre un vecchio pallino della neo premier: il blocco navale nelle coste libiche?
Lo scopo è esattamente quello. Utilizzare una iniziativa dell’Unione Europea per chiamare in un altro modo il blocco navale. Del resto quella parte di “Sophia” aveva proprio quell’obiettivo. A proposito di preoccupazioni, vorrei aggiungerne un’altra.

Quale?
Quella dell’ordine pubblico. Una preoccupazione che avvertiamo molto forte è che il diritto di protesta pacifica in Italia sia fortemente limitato. Non è un tema che nasce martedì dalle manganellate all’Università La Sapienza. Nasce da prima. L’idea che al primo momento di tensione una manifestazione venga sgomberata con la forza è un’idea di ordine pubblico che non ci piace. Ribadiamo un principio: che la protesta è pacifica ed è consentita salvo quando inciti palesemente all’odio e che eventuali comportamenti violenti di singoli non tolgono la caratteristica di protesta pacifica. Se ci sono comportamenti violenti il compito della polizia è quello di isolare queste persone e di proteggere gli altri manifestanti. Se invece alla prima avvisaglia s’inizia a manganellare dove capita ecco che il diritto di protesta pacifica non c’è più.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.