Il 9 e 10 dicembre si svolgerà il summit delle democrazie tanto atteso e preparato da Joe Biden. L’idea di fondo sembra quella di rivitalizzare le democrazie occidentali contro la minaccia globale che proviene dalle autocrazie. In realtà, è improbabile che stati come la Russia o la Turchia abbiano l’obiettivo di diffondere nel mondo un proprio presunto modello di organizzazione politica. Il vero disegno del presidente americano sembra quindi un altro: riunire gli alleati attorno agli Usa per sostenere la competizione del decennio contro la Cina. Un competizione prima di tutto economica.

Una prima importante risposta da parte dell’Europa è arrivata la settimana scorsa: l’Ue, infatti, ha presentato la sua iniziativa da 300 miliardi di euro (pari a 340 miliardi di dollari) per fare da contraltare alla Belt and Road Initiative cinese: un programma di investimenti che, come sostiene la Commissione, creerà “collegamenti, non dipendenze” con i paesi più poveri. Secondo le stime della Banca mondiale, i paesi a basso e medio reddito soffrivano un divario di investimenti infrastrutturali di 2,7 trilioni di dollari già prima della pandemia. Il programma europeo denominato Global Gateway vuole contribuire a sostenere la ripresa globale sia mobilitando investimenti nelle reti digitali, nell’energia pulita e nelle reti di trasporto, che potenziando i sistemi sanitari, di istruzione e di ricerca in tutto il mondo.

«Con il Global Gateway vogliamo creare legami forti e sostenibili, non dipendenze, tra l’Europa e il mondo e costruire un nuovo futuro per i giovani», ha dichiarato mercoledì scorso Jutta Urpilainen, commissario dell’UE per i partenariati internazionali. Secondo la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen il piano offre una “vera alternativa” al programma infrastrutturale globale della Cina, accusata di aver strozzato con enormi debiti una serie di paesi, trasformandoli in succursali della propria potenza egemonica fin dal 2013. Ecco perché Von der Leyen assicura che i paesi in via di sviluppo “hanno bisogno di offerte finanziarie migliori e diverse” e che il piano dell’Ue – con investimenti previsti per i prossimi sei anni – non creerà “livelli di debito insostenibili” nei paesi partner.

Negli ultimi anni, la Cina ha investito miliardi nella costruzione di strade, ferrovie e porti in tutto il mondo per creare nuovi legami commerciali e relazioni diplomatiche. A marzo 2021 il Council on Foreign Relations, un think tank statunitense, contava già 139 paesi aderenti all’iniziativa di Pechino, per un totale del 40 per cento del Pil globale. Bisogna anche ricordare che la nuova “Via della Seta” cinese aveva messo radici anche in Europa. Fu proprio il governo gialloverde italiano guidato da Giuseppe Conte l’alleato più devoto della Cina nel 2019. In quell’anno Conte partecipò anche al forum che si svolse in aprile a Pechino, poche settimane dopo che l’Italia era diventato il primo membro del G7 a firmare l’accordo con la Cina. A Pechino arrivarono pure il cancelliere austriaco Sebastian Kurz e al presidente portoghese Marcelo Rebelo de Sousa. In quella occasione i leader di Regno Unito, Francia e Germania scelsero viceversa di stare alla larga dalle brame egemoniche di Xi Jinping. Oggi il governo Draghi torna a posizionarsi sull’asse europeista e atlantista.

L’alternativa europea alla Belt and Road cinese sarà finanziata da un mix di 18 miliardi di euro (20 miliardi di dollari) in sovvenzioni e 280 miliardi di euro (317 miliardi di dollari) in investimenti da parte degli Stati membri, delle loro banche di sviluppo, del settore privato e degli organismi di finanziamento dell’Ue, compresa la Banca europea per gli investimenti. La Commissione Ue valuta inoltre la creazione di una nuova linea di credito per le aziende europee che vendono nei mercati extra Ue: il che le aiuterebbe a competere con le aziende cinesi che ricevono ingenti sussidi governativi. La sfida economica dell’Europa al Dragone è partita.

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