Caro Riformista, la fervida e costante disquisizione intorno ai dpcm che dall’inizio dell’emergenza pandemica da Covid-19 si sono susseguiti con un contenuto prevalente di protezione della sanità pubblica, ha mostrato il basso grado e la vacuità di una politica non più avvezza a guardare la luna, ma concentrata sul dito. La sterile polemica intorno al numero di commensali a una cena di famiglia è sintomatica, infatti, di una deriva semplicistica e di una classe dirigente e di governo del Paese che non osserva come le falle endemiche del sistema si stiano ingigantendo e non siano state generate dal Covid-19.

Il virus le ha semplicemente portate alla luce, alla stregua di un archeologo con uno straordinario reperto storico, ma ciò che è mancato è stata la cura di problemi atavici attraverso una programmazione e strutturazione di interventi mirati e funzionali all’ammodernamento e rilancio dell’Italia. E il costante richiamo del sindacato confederale alla responsabilità sembra cadere nel vuoto, laddove otto lunghi mesi non sono serviti alla politica nazionale e territoriale per determinare interventi risolutivi di vecchie e nuove questioni irreparabilmente incancrenite e figlie di una mala gestione vestita ormai da gestione ordinaria. A ciò si aggiungeranno, nel breve e a cascata, una serie di tasselli che renderanno ancor più complicata la composizione del puzzle. Si pensi alle risorse del Recovery Fund che le casse statali non vedranno prima della prossima estate e per le quali, a oggi, sembra mancare anche la minima idea di utilizzo strutturato. Si pensi allo Sure che per capienza poco potrà rispetto allo tsunami che sta per abbattersi sul Belpaese con lo sblocco dei licenziamenti e in mancanza di una riforma del mercato del lavoro proiettata al futuro.

Senza dimenticare lo “scongelamento” delle cartelle fiscali che incombono sui contribuenti, che dovranno essere saldate alla scadenza della moratoria e per le quali il Governo non ha ritenuto entrare a gamba tesa disciplinandone la graduale e agevolata riscossione. E ancora il mancato sblocco dei cantieri che risponderebbe in modo proprio, non distorto e senza ingenerare ulteriori emorragie alle economie pubbliche, al principio keynesiano dell’aumento della domanda aggregata con il conseguente aumento dell’occupazione. E poi ci sono la regolamentazione e contrattualizzazione del lavoro agile declinato perfettamente per garantire produttività ed efficienza al di là della modalità lavorativa espressa. Infine non va sottaciuta l’incapacità a infrastrutturare la rete ospedaliera che va coordinata con quella della medicina territoriale per rispondere all’emergenza, ma che da sempre è carente nelle risposte alle esigenze di salute dei cittadini e paradossalmente trasforma i luoghi di cura in luoghi di contagio. Questi sono solo alcuni dei temi sui quali, nei prossimi sei mesi, bisognerà incentrare l’azione politica. Se la politica non deciderà di intestarsi la P maiuscola, poco si potrà fare e l’Italia vedrà il baratro sempre più vicino, mentre già crescono le disuguaglianze e le tensioni sociali.

In questo scenario apocalittico, ma ben vicino a una possibile realtà, il sindacato c’è e, con il suo carico di proposte, vive l’attesa di potersi confrontare e garantire il suo fattivo contributo. La visione del futuro in Campania è ancora opaca e sfocata per la deliberata volontà nel non determinare le priorità d’intervento strutturali e d’impatto sociale. Urge riaprire un confronto permanente con la Regione: ogni giorno che passa si acuisce la forbice del benessere tra i cittadini negando il principio fondamentale del diritto al lavoro, alla salute, ai servizi. La Campania potrà uscire dalla crisi solo con misure assistenziali erogati a pioggia? È il tempo delle scelte, delle idee, delle priorità. È ora del coraggio di condividere un progetto per le terre campane per uscire da una dimensione distopica mai percepita in passato. Un solo rimpianto e una domanda: e se la seconda ondata si fosse potuta evitare adottando misure più coraggiose, magari affrontando le grandi sfide cui la Campania e l’Italia erano chiamate già da tempo? Con i se e con i ma, però e purtroppo, non si fa la storia.