Oggi il Consiglio di Presidenza del Senato è convocato per riprendere l’esame e decidere (?) su quello che ormai è divenuto il “caso Del Turco”, ovvero se sarà confermata la revoca del vitalizio ai sensi della delibera Grasso-Boldrini del 7 maggio 2015 o se prevarranno non solo dei palesi motivi umanitari in ragione delle condizioni di salute dell’ex presidente della Regione Abruzzo (per ricordare solo l’ultimo incarico ricoperto da Del Turco), ma anche un ripensamento su di un provvedimento – assunto in regime di autodichia e in clima di caccia alle streghe – indegno del Parlamento di uno Stato di diritto.

Che Del Turco sia gravemente malato, che soffra di diverse patologie invalidanti, credo sia ormai noto a tutti tranne che a lui, perché nella sua casa di Collelongo vive, assistito dai famigliari, non più padrone di se stesso. La sua mente vaga nella nebbia di un oblio che, nella situazione in cui è costretto, appare persino più compassionevole dei suoi carnefici. La vicenda giudiziaria di Ottaviano è riassumibile in un decennio di processi iniziati con accuse di reati gravissimi ognuno dei quali veniva rimosso ad ogni grado ulteriore di giudizio, fino ad essere condannato in via definitiva a tre anni e 11 mesi di reclusione per un reato – “induzione indebita a dare o promettere utilità” – che al momento dei fatti (2006-2007) non faceva parte del codice penale, essendo stato previsto come distinta fattispecie dalla famigerata legge Severino del 2012.

È bene notare, a questo punto, un dato di fatto che ha la sua rilevanza: nella sentenza nessuna delle pene accessorie riguardava la sospensione o la revoca del vitalizio. Trattandosi di una sentenza passata in giudicato le sacrosante critiche, che essa meriterebbe, possono trovare una sede idonea in un’aula di giustizia, se i difensori di Ottaviano riusciranno a ottenere una revisione del processo, come hanno richiesto. La questione del vitalizio è una storia a sé che trova un preciso riferimento nella delibera Grasso-Boldrini del 2015. Vediamo la norma nel testo della Camera: «È disposta la cessazione dell’erogazione dei trattamenti previdenziali erogati a titolo di assegno vitalizio o pensione a favore dei deputati cessati dal mandato che abbiano riportato, anche attraverso il patteggiamento a) condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti, consumati o tentati, previsti dall’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale (mafia e terrorismo) e dagli articoli da 314 a 322-bis, 325 e 326 del codice penale (reati contro la P.A. come peculato e concussione); b) “condanne definitive con pene superiori a due anni di reclusione per delitti non colposi, consumati o tentati, per i quali sia prevista la pena della reclusione non inferiore nel massimo a sei anni, così determinata ai sensi dell’articolo 278 del codice di procedura penale”».

Il caso Del Turco rientra nelle fattispecie indicate nella lettera a). Peccato – ne prenda nota il Consiglio di Presidenza – che il reato di “induzione” non sia indicato né come fattispecie né come articolo (319 quater c.p.). Infatti le indicazioni specifiche del “peculato” e della “concussione” devono essere considerate tassative. Se poi si volesse sostenere che prima di trovare una definizione specifica, l’induzione fosse inclusa nella concussione (da cui venne estrapolata dalla legge Severino) è doveroso ricordare che da quel reato Ottaviano Del Turco è stato assolto dal suo giudice naturale nel corso del suo calvario processuale. Questa potrebbe essere una motivazione, ineccepibile sul piano giuridico, che il Consiglio di Presidenza di Palazzo Madama potrebbe adottare oggi per il caso Del Turco. Poi sarebbe opportuno ed equo riesaminare la delibera, in modo che non possa fare altri danni. In questi giorni ho cercato di documentarmi il più possibile sulla dolorosa vicenda del mio amico. E mi sono imbattuto – su Internet – in un autorevole parere pro veritate del presidente emerito della Consulta Valerio Onida (recante la data del 18 marzo 2018 ovvero poco prima che la delibera dei due presidenti fosse assunta) con il titolo “Sulla legittimità costituzionale di misure di revoca del vitalizio ad ex parlamentari condannati per determinati reati”.

Onida, in via preliminare, riteneva necessario porsi la questione della ratio di un provvedimento siffatto, domandandosi se la revoca o la sospensione: a) fossero un’ulteriore sanzione per il reato commesso e a esso conseguente; b) riguardassero un beneficio concesso unilateralmente e “graziosamente” dallo Stato la cui motivazione venisse a mancare nel momento in cui cessasse l’onorabilità del beneficiario; c) derivassero da una nuova normativa relativamente ai requisiti. Il parere poi prendeva in esame ognuna di queste causali con dovizia di argomenti (il documento è di ben 19 pagine) arrivando alle seguenti conclusioni per ciascuna di esse. Se si tratta di pene accessorie, esse devono essere disposte dall’autorità giudiziaria con la sentenza di condanna (il che nel caso Del Turco non è avvenuto); ma tali sanzioni non possono riguardare i trattamenti di natura previdenziale obbligatoria, ma solo eventuali benefici concessi unilateralmente per motivi che vengano meno in caso di sopraggiunta indegnità. Nel parere, poi, vi era una approfondita disamina delle caratteristiche del vitalizio e della sua equiparabilità – pure nella differenza di origine e di funzione – a un trattamento di pensione. Il che – in quel contesto normativo – ricopriva un significato dirimente proprio per escludere che si trattasse di una sorta di “benemerenza gentilmente concessa” e quindi revocabile.

Quello degli aspetti previdenziali è un filone interessante da approfondire, perché tra la delibera del 2015 e la sua applicazione sul vitalizio di Del Turco, la prestazione “vitalizio” ha mutato natura giuridica. È indubbio, infatti, che la natura previdenziale della prestazione sia approdata a riferimenti più sicuri dopo la riforma dei vitalizi degli ex parlamentari (con delibere di ambedue le presidenze nel 2018), ricalcolati con un metodo contributivo (benché discutibile nei criteri adottati) proprio per rafforzarne – si disse – il carattere di pensione. La giurisprudenza consolidata ha escluso persino che le prestazioni di carattere assistenziale siano revocabili a fronte di certi reati di particolare gravità (anche di mafia e terrorismo). È veramente singolare che una sanzione siffatta sia comminata nel caso di un trattamento pensionistico obbligatorio in cui – in una qualche misura – vi sia un sinallagma tra la prestazione e la contribuzione versata, adottato sia pure con qualche forzatura proprio per eliminare il carattere di “concessione privilegiata” per lo status di parlamentare.

Così, la trasformazione in senso previdenziale del carattere della prestazione – soggetta alla revoca – disposta nel 2018, potrebbe costituire un motivo per rivedere la delibera del 2015, in nome dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Se la pensione è un diritto soggettivo (addirittura può essere pignorabile o ceduta solo in parte); se la retorica populista – anche attraverso un algoritmo de noantri – ha preteso che anche gli ex parlamentari avessero la pensione “come gli altri cittadini” (in realtà finendo per operare una discriminazione ai loro danni, perché gli ex parlamentari sono gli unici a cui è stata ricalcolata la pensione/ex vitalizio, col criterio contributivo), anche nella follia non stonerebbe un po’ di logica. E un po’ di vergogna.