Che la criminalità organizzata possa tentare di far soldi insinuandosi nelle attività della ripresa economica è un rischio effettivo: ma una ripresa con sigillo “antimafia” rappresenta un rischio anche più grave. Un conto è infatti impostare politiche di sviluppo senza rinunciare al dovuto controllo pubblico sulle attività illegali: tutt’altro conto è che quelle politiche pretendano di trovare fondamento in una specie di presupposto antimafioso. L’andazzo del dibattito pubblico, puntualmente orientato dai romanzieri anticamorra e dalla magistratura in militanza telegiornalistica, è ormai apertamente questo: la criminalità è in agguato, e dobbiamo innanzitutto attrezzarci per impedire che faccia profitto. La ripresa del Paese subordinata alle esigenze di contrasto della criminalità.

È una concezione insieme forsennata e ottusa dell’intervento pubblico, che assume a criterio strategico ed esecutivo la risultanza da mattinale, l’elenco da carico pendente, e trasforma l’indagine burocratico-giudiziaria nella linea-guida del governo in campo economico. L’altro giorno, sul Corriere della Sera, il procuratore della Repubblica di Catanzaro, Nicola Gratteri, in doppio con il giornalista ‘ndranghetologo Antonio Nicaso, ha spiegato quel che dovrebbe fare “un Paese serio” per gestire nel modo giusto l’iniziativa pubblica nella situazione di crisi determinata dall’emergenza sanitaria: monitorare «i passaggi di proprietà delle aziende, ma anche le acquisizioni sospette di quote azionarie», che è un modo, appunto, per dire che lo Stato è “serio” nella misura in cui disciplina i movimenti dell’economia osservandoli con l’occhio inquirente della magistratura o, più direttamente, sottoponendoli alla direttiva delle forze dell’ordine.

Non è un caso, e fa rabbrividire, che la specie di programma di governo proposto dal duo Gratteri/Nicaso faccia largo appello alla “nota” inviata ai questori da parte del capo della Polizia, quello che l’altro giorno prometteva mano dura contro i «furbi che vogliono disattendere la legge» (le cronache ci dicono che la categoria malefica è significativamente rappresentata da chi si avventura nella corsetta vietata o da chi si rende responsabile dell’ignominia di comprare tre bottiglie di vino anziché una).

Le mafie, avvisa il dottor Gratteri, «cercheranno sicuramente di mettere le mani sulle risorse comunitarie», e «ci sarà anche chi cercherà di condizionare gli elenchi dei cittadini bisognosi che i sindaci sono chiamati a compilare». Bene, e allora che cosa facciamo? Affidiamo alle procure la gestione delle risorse comunitarie? E gli elenchi dei cittadini bisognosi? Affinché non siano “condizionati” li facciamo compilare ai carabinieri? Non solo la gestione dell’emergenza sanitaria è principalmente connotata da questo approccio di tipo punitivo, come se il dilagare del virus fosse l’effetto dell’irresponsabilità di quei “furbi” che attentano alla perfezione delle politiche di contenimento.

Anche le prospettive verso il “dopo”, infatti, si dipartono dal medesimo punto di vista sanzionatorio: la ripresa aziendale come indizio di mafiosità, che ovviamente non è la convinzione del dottor Gratteri ma è l’inevitabile effetto di quell’impostazione se si lascia che diventi una formula di governo. Il pericolo dell’interposizione della criminalità in una transazione non si combatte interponendo polizia e magistratura in tutte le transazioni, così come non si chiudono le pizzerie solo perché in alcune investe la camorra né si fermano le compravendite immobiliari solo perché qualche mafioso ottiene un appezzamento a prezzo di favore.