Una volta al governo, la sinistra veste i panni del partito “che-vuoi-che-sia”. Prima, quando sta per andarci, indossa invece quelli del partito “ma-anche”, da non confondere – e qui chiedo un po’ di attenzione – con la variante “sì-però”. Vuol dire questo. Se si avvicina alla Dc tanto contestata o va a braccetto con gli odiati grillini, la sinistra tira fuori il primo atteggiamento. Con Andreotti o con Grillo? Che vuoi che sia, l’importante è condizionare l’azione di governo. Francesco Piccolo ci ha scritto un libro ironico e intelligente, sebbene molto giustificatorio; lo ha intitolato “Tutti”, e si è aggiudicato lo Strega. Naturalmente, avendolo pubblicato nel 2013, Piccolo parlava della Dc di Andreotti e del Pci di Berlinguer, ma in qualche modo già profetizzava l’asse Grillo-Zingaretti. Diverso è il “ma-anche” veltroniano, il siamo comunisti ma anche no, che invece è servito a rilegittimare la sinistra nel frattempo tornata all’opposizione.

E il sì-però? Ecco, questa ultima variante del tatticismo di sinistra trova la sua massima espressione nei nostri confini regionali, nella Campania di De Luca, dove la contraddizione da sciogliere è diversa. La sinistra non deve rilegittimarsi, perché è già al governo, e non può neanche giustificarsi ex post dicendo che, una volta in campo, organizzerà diversamente il gioco: non può farlo, perché non lo ha fatto in questi anni e sa che con De Luca difficilmente toccherà palla. Allora, non le resta che inventare dei distinguo per il futuro, la cui efficacia è però prossima allo zero, perché queste cose si fanno vivere prima di impegnarsi, non dopo. Dopo, quando il contratto elettorale è già firmato, e per giunta a prescindere dai contenuti, tutto lascia il tempo che trova. Finita la premessa, vengo agli esempi. Il primo è Paolo Mancuso, presidente del Pd napoletano. Ispiratore del metodo Ruotolo (tutti uniti contro Salvini e possibilmente senza De Luca), Mancuso deve ora arrendersi alla straricandidatura dell’uscente. E dunque pone dei paletti che assomigliano più a desideri che ad altro.

Il più concreto di questi paletti è un posto in giunta per un assessore napoletano, a presidio di una rappresentanza cittadina ritenuta finora mortificata. A onor del vero, Mancuso inserisce la richiesta nell’ambito di una riflessione più ampia sui giusti equilibri da ripristinare tra le autonomie locali, tra la Regione e i Comuni, ma mentre questa parte del ragionamento rimane generica, l’altra è già bell’e definita, almeno nelle intenzioni. E per ora serve solo a favorire chi dice che De Luca è stato per Napoli un pessimo governatore. Il secondo esempio è Salvatore Vozza, leader di Articolo Uno. Anche Vozza pratica il distanziamento politico da De Luca su tutta una serie di questioni delicate che vanno dalla sanità al lavoro. Il che conferma un disagio per come vanno le cose. Poi, però, ammette a chiare lettere che tutto ciò lo dice avendo già “condivisa la candidatura del governatore uscente”.

E allora? Molto vicino a questa linea ossimorica è anche Sandro Ruotolo, colui che avrebbe dovuto ispirare l’alternativa di sinistra. Anche da parte sua si profila un clamoroso “sì, però”. Sì a una coalizione (pro De Luca, si presume) però nella discontinuità. Ma intanto De Luca ha già imbarcato De Mita, Pomicino e Mastella, cioè l’opposto della discontinuità, e su questo si fa finta di nulla. Una lezione di stile viene invece da Nichi Vendola, ex governatore della Puglia. Gli è stato chiesto se voterà per la ricandidatura di Emiliano. E lui, che con Emiliano non è mai andato d’accordo, ha così risposto: “Io sono un elettore di sinistra, voterò a sinistra, voterò la coalizione e il candidato presidente del centrosinistra”. Insomma: sì, senza però.