«Lo Stato non scende a patti con chi minaccia». «Lo Stato non si lascerà intimidire e condizionare». «Da parte del governo c’è la massima fermezza». «Lo Stato non arretra e non si piega». Quando a diffondere simili proclami sono, nell’ordine, palazzo Chigi, il ministro degli Interni, il ministro dell’Agricoltura che non c’entra niente ma è vicinissimo alla premier per legami politici e familiari, il sottosegretario di fiducia di Giorgia Meloni alla Giustizia, il brivido corre per forza lungo la spina dorsale.

È una farsa, la grottesca replica di passaggi che furono invece serissimi, primo tra tutti il sequestro Moro. Però può degenerare in tragedia. Nei talk show di domenica sera non mancava chi, pur criticando severamente la decisione di sottoporre Alfredo Cospito ai rigori dei 41 bis, aggiungeva che tuttavia, “naturalmente”, a questo punto la revoca dovrebbe essere comunque fuori discussione. Ne va della fermezza. Converrebbe riportare i fatti alle adeguate proporzioni. La decisione di non trattare ai tempi del sequestro Moro è discutibile e discussa, criticabile e criticata. Però gli estremi per imboccare quella via – giusta o sbagliata che fosse – c’erano, nel testo e nel contesto. Quest’ultimo, il quadro generale, pesò parecchio. Le organizzazioni armate erano all’offensiva, gli attentati piombavano a ritmo quotidiano.

Chiedersi quale scelta avrebbe maggiormente avvantaggiato il terrorismo rivoluzionario era comunque doveroso. Non risulta che l’Italia e l’Europa si trovino alle prese con emergenze anarchiche di sorta. La tensione sociale, in caso di trattativa, era probabile. Il pomeriggio stesso della strage di via Fani i sindacati si presentarono dal presidente del consiglio Giulio Andreotti e furono ultimativi: «Non pensate di trattare per un leader politico dopo che cinque lavoratori delle forze dell’ordine sono stati ammazzati». La strage fu senza dubbio un ostacolo alla trattativa di prima grandezza.

Quattro anni prima, ai tempi del sequestro Sossi, lo Stato e la stessa magistratura si erano clamorosamente spaccati sulla trattativa, ma il sequestro, in quel caso, era stato senza vittime. Qui si parla di petardi, di un’auto incendiata e di una manifestazione di protesta. Non è la stessa cosa. La Dc e il governo si trovarono a dover scegliere tra la salvezza di Aldo Moro e una crisi di governo che avrebbe reso inevitabili le elezioni anticipate e probabile la vittoria del Pci. Non a caso appena tre anni dopo, senza più quel pericolo, la stessa Dc accettò di trattare, con tanto di intermediazione camorrista, per la vita di Ciro Cirillo. Anche se per rapirlo i brigatisti avevano sparato e ucciso. Il calcolo di Andreotti fu probabilmente cinico ma non irragionevole.

Il governo Meloni non corre di questi di rischi. In ogni caso il legame tra i sequestratori di Moro e i leader brigatisti in carcere dei quali si chiedeva la liberazione era indiscusso. Quelli tra Cospito e gli anarchici che hanno scelto la protesta più sciocca e autolesionista è invece al di sotto di ogni sospetto. La stessa fermezza per antonomasia, quella del 1978, andrebbe del resto analizzata meglio di quanto non si faccia di solito. La Dc era prontissima a trattare, col beneplacito del Pci, finché la contropartita era solo in moneta sonante. Si trattava però di un inganno. L’enorme cifra, formalmente raccolta dal solo Vaticano, che lo Stato era disposto a sborsare si sarebbe tradotta senza alcun dubbio in “covi”, armi, strutture logistiche. Si sarebbe tradotta in morti e feriti ed è difficile credere che uomini come Andreotti, Cossiga e Pecchioli non se ne rendessero conto.

Reputarono che ammettere pubblicamente la natura politica e non criminale delle Br, perché a questo si erano ridotte nel corso dei 55 giorni le richieste dei rapitori di Moro, fosse invece un passo proibito ed è significativo ricordare che pochi anni dopo, nel Regno Unito, la premier Thatcher avrebbe lasciato morire in carcere Bobby Sands e altri 9 detenuti dell’Ira in sciopero della fame: non dire apertamente quel che tutti sapevano, in Uk come in Italia, cioè che l’Ira e le Br erano organizzazioni politiche armate. Secondo molti furono scelte sciagurate, sia quella del Divo Giulio che quella della Lady di Ferro. Quell’apparizione del segretario della Dc Zaccagnini in tv, reclamata invano dalle Br, non avrebbe cambiato le cose e la stessa Iron Lady si rassegnò a concedere quel che i detenuti in sciopero chiedevano appena poche settimane dopo averne portati 10 a morire di fame.

Ma nel caso di Alfredo Cospito non dovrebbe porsi neppure il dubbio: revocare un 41bis che non avrebbe mai dovuto essere disposto non avrebbe alcun costo e chi governa lo sa perfettamente. Evocare la fermezza, la dignità dello Stato, l’esigenza di non arrendersi è nel caso Cospito solo fuorviante. Non solo perché Cospito non è né un boss mafioso né un leader terrorista ma perché il 41bis, disposto per impedire comunicazioni non segrete ma ufficiali, addirittura a mezzo stampa, non ha senso nel caso dell’anarchico detenuto a Sassari. La fermezza dunque non c’entra niente: non si tratta di piegarsi o meno a un ricatto ma di ovviare a una palese e clamorosa ingiustizia. Con tutta la fermezza del caso.