Dopo le fantasie contro il partito di Bibbiano, proprio Di Maio tenta di costruire il “Partito del Bibbi(t)ano”, con al seguito 60 parlamentari alla ricerca della terza via per tornare a Montecitorio in spregio dell’aurea regola populista del limite dei due mandati. Senza passioni, fratture reali che maturano attorno a differenti idee di società, nei 5 Stelle si consuma una caotica implosione degli eletti con amicizie e inimicizie a bassa intensità politica. Un partito di origine esterna, prodotto di una rivolta della società, si decompone integralmente nelle aule parlamentari vittima della seduzione degli antichi simboli del potere. Non si comprende la genesi del M5s senza la cesura indicata dalla grande crisi organica dell’età della globalizzazione che nel 2007 annunciò il tramonto del trentennio liberista.

Nel vuoto di una cultura di sinistra, rimasta impigliata in molti paesi europei tra le scialbe categorie ottimistiche e aconflittuali della “terza via” e del nuovo centro, e quindi incapace di offrire sbocchi politici alla protesta, il cosiddetto populismo raccolse il disagio sociale e generazionale con l’invenzione di una contro-rappresentanza nel segno dell’uno vale uno quale emblematica forma di denuncia del fallimento storico delle élite tradizionali e dei riti del bipolarismo maggioritario. Lavorando sulle suggestioni degli algoritmi, e conducendo esperimenti di mobilitazione nel segno del marketing del rancore, gli strateghi della micro-azienda Casaleggio riuscirono a disegnare, per primi in Occidente, il modello di un non-partito digitale capace di premere le pulsioni giuste per conquistare la maggioranza dei voti. La fase neutralizzante del governo tecnico guidato da Monti aveva aperto uno spazio consistente alla rivolta contro la politica ufficiale incapace di governare il disagio e quindi raffigurata come impermeabile universo delle élite privilegiate.

Sulla base dell’amplificazione di sentimenti, paure e ansie percepite con i ritrovati della rete e con efficacia trasferite nella piazza reale da un comico che si proponeva quale scopritore del vero con il linguaggio dell’indicibile, la micro-azienda ha inventato un non-partito capace di fotografare le passioni tristi di una età di sradicamento, di perdita di mediazioni politiche. L’industria del rancore con abilità tecnico-comunicative vinceva come la “nuova” politica che, con un personale politico del tutto sconosciuto e reclutato in forme opache attraverso una piattaforma, reagiva alla sordità sociale dei governi ispirati dalle direttive programmatiche delle agenzie europee.
Ingrossatosi elettoralmente come una reazione popolare alle misure restrittive del governo tecnico di Monti, con la sua retorica del “pilota automatico” indifferente agli scopi e alle richieste, ora il M5s si decompone perché la pattuglia di Di Maio si identifica integralmente con l’esperienza tecnocratica di Draghi al punto da ribaltare i miti fondativi del Movimento, con la rivendicazione del principio che l’uno non vale l’altro. Il partito dell’anti-élite si affretta a proporsi come il partito dell’élite pronto ad accasarsi nel laboratorio caotico per la costruzione di un partito unico delle classi dirigenti centriste e moderate.

La dichiarazione di fedeltà atlantica, che dovrebbe conferire al nuovo soggetto una collocazione stabile nella guerra di civiltà, indica che il passaggio dalla ribellione contro l’establishment alla domanda formale di fare la sentinella dell’affidabile classe dirigente al potere non costituisce affatto una deriva incomprensibile. Il populismo è geneticamente sia rivolta dal basso contro le banche che hanno truffato i clienti con i bond, contro gli inceneritori, la Tav e le crisi aziendali (Grillo dichiarava che “se falliamo, ci sarà la violenza nelle strade. Metà della popolazione non ne può più”) sia costruzione dall’alto (per il M5s hanno votato i principali editorialisti del Corriere della Sera, le reti di La7 hanno generosamente amplificato le immagini della grande marcia grillina sino a Piazza San Giovanni). Nel M5s sono confluite sia la moltitudine rancorosa, che si scaglia contro le élite per invocare un repulisti generale, sia l’azione delle élite stesse che giocano anche la carta antipolitica per scongiurare risposte di sinistra e per sbarazzarsi delle residue mediazioni politiche e sindacali. Non si comprende la natura reale del M5s se non si coglie che la protesta antipolitica, che divampa fuori dal sistema, è alimentata con astuzia anche dai poteri che abitano dentro il sistema. La più sensazionale formazione anti-sistema è stata foraggiata dalle munizioni e dalle immagini prodotte dai residuali registi del sistema che, sconfitti nella costruzione di una loro autonoma forma politica, si affidano al vento della protesta per avvantaggiarsi delle operazioni di rottura e dirigerle in un senso insperato.

Proprio questi poteri, oggi tranquillizzati dalla decomposizione della loro stessa creatura selvaggia, salutano in Di Maio il segno positivo dell’evoluzione di un ceto (anti)politico che dalla protesta attraverso una miriade di azioni di resistenza si arrampica al governo, dall’euroscetticismo e dall’amore per i gilet gialli approda all’atlantismo più intransigente. Con la scissione del ministro degli Esteri finisce l’esperienza che aveva trionfato coniugando i social network e i Meetup, la rete e il comico, il blog privato e la pubblica piazza, il virtuale e il fisico, la conduzione aziendale e l’antagonismo. L’affollamento dell’area di centro mostra le risorse infinite del trasformismo, capace di stemperare ogni cosa, di assorbire magicamente nei riti del potere i nemici più eterogenei (proprio il M5s, dalla originaria ripulsa di ogni compromesso e alleanza, è transitato all’accettazione di ogni formula politica: dopo l’accordo tra la rete e la ruspa, tra l’immateriale cyberspazio e il materiale territorio un tempo solo padano, sono state siglate intese con i “rossi” e, addirittura, con i tecnici). Questa attrazione centripeta nasconde un problema irrisolto: l’infinità di sigle e di micro-aggregazioni nulla dice sul radicamento effettivo nella società dei tanti leader che cercano di puntellare il consenso al metapartito della super-élite al potere.

La strategia di un trasformismo rivolto ai ceti abbienti, da sedurre con le creative offerte elettorali necessarie per sostenere il partito unico della classe dirigente, confida che la riduzione della complessità sociale sia in qualche modo garantita dalla benedetta sfiducia, dal rifiuto della politica che induce all’astensione cronicizzata dei poveri. Si sta definendo, in tal modo, una nuova polarità: il gioco competitivo è sperimentato nel perimetro della società dei garantiti, mentre invece il sentimento della sfiducia abita nei ceti popolari indotti all’apatia, alle strategie di uscita dallo spazio pubblico. Gli effetti sociali dell’economia di guerra potrebbero sconvolgere le vie della passivizzazione e indurre (questa è la speranza non solo di Conte) all’ennesima contrapposizione dentro-fuori, alto-basso.

La scissione pactada tra Di Maio e Palazzo Chigi non incide sulle sorti elettorali del M5s, e ardua è la conquista del consenso entro uno spazio politico nel quale leader ben più capaci del titolare della Farnesina già sono in campo. Se l’anima governista è condannata all’irrilevanza, anche la residua componente sociale dei grillini è orientata verso la deriva se il conflitto politico è giocato come quello grottesco inscenato nel corso del passaggio parlamentare del 21 giugno. L’atlantismo miope del governo, la evoluzione Pd nel segno del moderatismo, e le ricadute sociali del conflitto ucraino, aprono una potenziale frattura che può trovare espressioni politiche inedite vista l’incapacità della sinistra di approfittare anche di questa congiuntura storica.

Per sfidare il ceto politico blindato, che in un treno marcia verso Kiev trascurando le distruttive implicazioni della guerra, servirebbe una determinazione ideale e un volontarismo politico che manca a sinistra ma è arduo intravvedere anche nell’avvocato del popolo. C’è un’area critica e di protesta che aspetta una mobilitante offerta politica. Se ciò che rimane del M5s intende rivolgersi a questo mondo spaesato dovrebbe percepire che coltivare le sensibilità più radicali sulla Nato, la guerra, la questione sociale è incompatibile con la strategia lettiana del campo largo che ormai sembra peraltro una formula declinante soffocata per via di una inflazione dell’offerta centripeta.