L'inferno dietro le sbarre
La violenza non è mai lecita, per questo il carcere va abolito
Nel ventennale della nascita di “A buon diritto”, la benemerita associazione che si occupa di privazione della libertà, di diritti umani e civili, ritorno sulla abolizione del carcere su cui il suo presidente e fondatore, Luigi Manconi, ha scritto anche su questa pagina di Nessuno tocchi Caino parole illuminanti. “Non è una provocazione né un palpito profetico. È, invece, un programma politico e una strategia normativa. Abolire il carcere significa, cioè, lavorare affinché costituisca davvero l’extrema ratio.” Il carcere è il luogo fisico e strutturato nel quale l’individuo e i suoi diritti vengono programmaticamente ignorati e calpestati, nella presunzione che la punizione, la vendetta di Stato e l’annichilimento della personalità siano le cure necessarie affinché il detenuto possa “redimersi” e in qualche modo “espiare” per le sue colpe.
Ma possiamo ancora parlare di “extrema ratio”? Noi per primi non dovremmo accettare che una “ratio” ci sia, ancorché estrema, nella violenza di Stato, come in quella di nessuno che faccia parte della società. Non esistono violenze lecite o “democraticamente e liberalmente” procurate a terzi, nemmeno quelle date in base alla Ragion di Stato. Per le tante e quotidiane constatazioni del fallimento del Sistema Penale, non solo nel nostro Paese, l’unica certezza della e nella pena è quella che indusse Altiero Spinelli a dichiarare, già nel 1949 sulla rivista Il ponte: «Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale». Le sbarre sono l’elemento comune che connota sia la vita di detenuti per fatti-reato sia quella dei malati di mente più poveri e senza famiglia. Dopo la chiusura dei manicomi giudiziari, detenuti e malati di mente sono stati concentrati nello stesso luogo: il carcere. Una illiberale e violenta filosofia delle sbarre continua a occupare la mente del legislatore, a orientarla sempre e comunque al più spietato livello di segregazione che lo Stato autoritario sia riuscito a ordire nei confronti dei devianti dall’ordine costituito, mentale e sociale. Il 98% dei detenuti sono “poveri cristi” ovvero coloro che – come ci ricordava il Cardinale Martini – noi consideriamo “colpevoli della loro stessa indigenza”.
A questo proposito posso solo ricordare i successi delle cosiddette “Borse lavoro” di cui hanno potuto usufruire sia i detenuti che i numerosi malati di mente in alcune regioni che le hanno istituite. L’idea di trasformare i luoghi di segregazione in Centri per l’Impiego potrebbe essere il primo suggerimento da dare al legislatore per ridurre drasticamente il numero dei detenuti. Come pure, devo ricordare che in Paesi come la Spagna, il Portogallo e la Svizzera, nei quali lo “spaccio” è sempre considerato “reato”, con la distribuzione gratuita e sotto rigido controllo medico di eroina e cocaina si sono potuti chiudere non pochi istituti carcerari. E con i “cattivi” come la mettiamo? Posso sommessamente ricordare che i “cattivi” non esistono, come ci dicono la moderna psichiatria e le scienze sociali, e che sono da ricercare in quello scarso 2% delle persone oggi private della libertà: sociopatici violenti e pochi altri pericolosi per sé e per gli altri. Per loro saranno necessari anni di cura del comportamento e di conoscenza delle regole di un vivere civile e nonviolento, che mai potranno essere dati in un luogo nel quale viene soffocata ogni più piccola manifestazione della dignità personale.
Sì, perché questo è ciò che il carcere è, così come titanico è il tentativo di voler portare il Diritto nelle carceri. Il solo risultato sarebbe quello di carcerare il Diritto. Ecco perché dobbiamo cominciare a introdurre mattoncini di nonviolenza attiva nella costruzione del Patto Sociale, se vogliamo un mondo migliore, nel quale confidare nella relazione con l’altro. E questo può accadere solo se cominciamo a radere al suolo i luoghi – innanzitutto mentali – della segregazione di Stato e, con una vera Riforma del Codice Rocco, a mandare in soffitta il modello di giudizio retributivo/punitivo. Lo Stato deve difendere il cittadino, ma non lo può “punire”. Sappiamo bene che la legalità non coincide con il Diritto, così come conosciamo i costi di un procedimento giudiziario, la sua straordinaria lentezza. Ma il costo maggiore sta nel vizio di origine di un sistema di giudizio fondato sul paradigma meccanicista di azione e reazione, sulla aberrante logica per cui alla violenza e al dolore del delitto debbano corrispondere una violenza e un dolore eguale e contrario, quello del castigo. Se questo è vero, è dimostrata tutta la necessità di “difenderci dal processo”, visto quanto ci costa e quanto poco risponda alla suprema istanza di umanità nella giustizia. Valgano, ancora una volta, le parole del cardinal Martini: «Qualsiasi pena [afflittiva] ha la distretta della pena di morte e della tortura, e il pensiero di affliggere un altro essere umano è intollerabile e perverso».
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