A stretto rigor di logica Fabrizio Cicchitto e Umberto Ranieri invocano la terza guerra mondiale. Conviene riportare tra virgolette le loro parole perché altrimenti dicono che sono stati colpiti da “una indebita forzatura”. Nel tempo presente, scrivono, si pone “una alternativa drammatica: o si accetta una egemonia di segno autoritario, o si rischia la terza guerra mondiale”. Quindi si delinea una “alternativa” secca. Se la tesi “a” (sbocco di segno autoritario) è da escludere, per non cedere alla seduzione russa, non resta che assumere (come una alternativa vorrebbe) l’affermazione “b” (la guerra mondiale). Se la logica binaria ha una regola, la scelta da compiere è tra l’autoritarismo di segno putiniano e l’assunzione della terza guerra mondiale come rischio eroico, questa almeno dovrebbe essere la conseguenza della alternativa o-o.

L’attrazione fatale per le armi è tale che non solo la logica traballa ma anche le posizioni ragionevoli, come quelle della socialdemocrazia tedesca (calmiere nella concessione di armi e rifiuto delle sanzioni economiche sul gas), sembrano ormai manifestazioni sospettabili di putinismo. Quanto al rilievo secondo cui io preferisco “sorvolare sugli aspetti odiosi del regime” russo, confermo che la caratteristica interna del regime di uno Stato è, nelle tipologie del diritto internazionale, irrilevante ai fini dell’attribuzione puntuale della responsabilità nel rapporto aggressore-aggredito. Insistere sul carattere autocratico della Russia nulla aggiunge all’imputazione, che pare davvero inequivoca, di precise responsabilità in atti illegali. E, quanto agli illeciti, anch’essi sembrano piuttosto acclarati nella violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina. D’altra parte, la qualità democratica di uno Stato non attenuta le colpe delle distruzioni e non cambia (come in Iraq) la responsabilità criminogena che ricade sull’aggressione bellica (in quel caso, americana). La dicotomia democrazia-autocrazia è inoperante nella individuazione della figura del primo aggressore e la tendenza a caricare la guerra del significato di una battaglia etica per la democrazia rimane estranea ai capisaldi del diritto internazionale.

Vale la pena riprodurre la frase di Cicchitto e Ranieri a proposito dell’occasione della guerra per la costruzione del nuovo ordine mondiale. La sfida per l’Occidente è di gestire l’emergenza bellica per definire “un ordine in cui una Russia che si emancipi dalla guida di un ex capo dello spionaggio, si liberi da un autocrate non potrà che avere un ruolo di protagonista”. Se le parole hanno un senso, anche nell’uso ballerino che ne fanno i miei due critici, questa frase significa che l’attuale leadership è un ostacolo e non può concordare i pilastri di un assetto internazionale: dirimente, nella disputa attuale per un nuovo ordine mondiale, è la questione del regime politico interno alla Russia. Il cambiamento della forma di governo, o almeno del titolare dello scranno presidenziale russo, pare affiorare in modo piuttosto evidente come l’obiettivo desiderato e, in tal senso, la guerra contro l’autocrazia compare come propedeutica al nuovo sistema internazionale. Cicchitto e Ranieri sollecitano un mio giudizio su Putin. Poiché, oltre alla carta, anche il direttore Sansonetti è tollerante, torno su un tema ampiamente trattato in un altro articolo. Michael Mann, il massimo studioso contemporaneo del potere, nel quarto volume della sua opera (The Sources of Social Power, Globalizations, 1945–2011, Cambridge, 2013) fornisce una efficace sintesi dell’esperienza della Russia post-sovietica alle prese con i dilemmi di una transizione al mercato.

Negli anni ’90 le terapie d’urto suggerite dai neoliberali in nome degli immutabili principi imponevano l’abbattimento dei simboli dello Stato per proseguire nel sogno di un mercato capace di autoregolazione. Nell’immediato si trattava di una catastrofe, con povertà, disoccupazione, crollo dell’istruzione, collasso nella protezione della salute, crescita della criminalità. “Il PIL georgiano è sceso del 76%. L’Ucraina, l’Azerbaigian, la Moldavia e il Tagikistan hanno perso il 50-65%; il Kirghizistan e l’Armenia circa il 50%; la Russia e il Kazakistan quasi il 40%; la Bielorussia e il Turkmenistan circa il 30% e l’Uzbekistan solo il 20%. Alla fine degli anni ‘90 ci fu una certa ripresa in Armenia, Georgia e Kirghizistan, mentre Bielorussia, Azerbaigian e Uzbekistan rimasero stabili. La Russia, l’Ucraina, la Moldavia e il Kazakistan continuarono a diminuire di circa il 4% all’anno e il Tagikistan e il Turkmenistan crollarono di quasi il 10% all’anno” (p. 203). Tutto ciò ostacolava, con il dogma delle tre condizioni sacre (privatizzazione, stabilizzazione e liberalizzazione), la nascita della democrazia e rallentava anche il mercato, che per funzionare esige regole, istituzioni, poteri. Un altro studioso, Kalevi Holsti (Major Texts on War, the State, Peace, and International Order, 2016), rileva che la genesi del capitalismo in Russia “appare sotto le vesti del racket” (p. 131). Come effetto delle riforme “i senzatetto crebbero drammaticamente; il paese fu saccheggiato da mafiosi ed ex apparatchiks, e scomparve mezzo trilione di dollari di ricchezza della Russia”.

Malgrado queste terribili condizioni della fase di accumulazione capitalistica, c’è stata, con la fine dell’era frizzante di Eltsin, una ricostruzione delle condizioni minimali del potere statale. “La Russia si è avvicinata di più alle elezioni democratiche, eppure Eltsin ha potuto essenzialmente nominare il proprio successore, Putin. La Russia non ha mai avuto un’elezione nazionale completamente equa, mentre la Georgia ha avuto un mix variegato di elezioni e colpi di Stato. Nonostante la mancanza di democrazia negli stati della CSI, e fatta eccezione per le situazioni di guerra civile, si riscontra un miglioramento rispetto all’era sovietica, perché ci sono parlamenti, partiti e media parzialmente autonomi, anche se le loro libertà sono limitate. La caduta dell’Unione Sovietica è stata in generale positiva in termini di rapporti di potere politico” (M. Mann, p. 202).

L’impiego della categoria di totalitarismo per questo non si addice alla reale conformazione delle odierne istituzioni politiche russe. L’autocrazia, che in Russia convive con le apparenze di una competizione pluralistica e con una limitata tolleranza dei partiti e di fonti molteplici di informazione, non coincide con il totalitarismo, che implica una ideologia monolitica, una pervasiva mobilitazione dall’alto, un controllo asfissiante della vita individuale e collettiva. Con i suoi tratti illiberali e autoritari, la Russia comunque presenta la parvenza di una investitura elettorale della leadership, che pure sfugge nei suoi atti di sovranità dai controlli di legalità, dai requisiti di trasparenza e di aderenza alla logica della divisione dei poteri. Questi impedimenti procedurali, che di sicuro escludono la riconducibilità delle istituzioni russe al campo della liberaldemocrazia, non comportano il disconoscimento dei legittimi interessi strategici della Russia. L’errore originario dell’Occidente è apparso il rifiuto, da parte dei vincitori della guerra fredda accecati dagli interessi di breve periodo, di ogni logica di condivisione con le potenze sconfitte dei parametri del nuovo ordine internazionale. La stampa tedesca ha recuperato i documenti degli anni ’90 che stabilivano una linea rossa, concordata dai quattro maggiori Paesi occidentali con la dirigenza sovietica, che negava un allargamento indiscriminato della Nato verso est.

Dalla cocente umiliazione la Russia, grazie alle risorse naturali e alla rinascita di una parvenza di struttura statuale, ha costruito un’economia di relativo benessere, con un ceto medio diffuso nelle città accanto ad oligarchi che regnano in un sistema sociale con ineguaglianze abissali. Sul piano ideologico-militare, il recupero dell’orgoglio russo è stato amplificato e spettacolarizzato. Il carattere autocratico del regime russo non è un motivo sufficiente per disconoscere che, come ogni potenza, anche quella di Mosca vanta degli interessi geostrategici, coltiva delle preoccupazioni relative alla sicurezza. Sui confini, Mosca ragiona con le stesse categorie delle altre potenze minacciate nella loro integrità. È un grossolano errore analitico cancellare queste dimensioni geopolitiche e attribuire alla ideologia o alla pura follia di un autocrate la comparsa della guerra. Anche senza l’ira funesta di Putin, il sistema russo avrebbe comunque richiesto al potere di delineare delle misure difensive efficaci per non compromettere le posizioni ritenute essenziali per conservare la sicurezza del paese.

La Russia ha accettato, senza neanche scomporsi troppo, il passaggio alla Nato di gran parte del vecchio blocco di Varsavia. Anche gli Stati baltici, occupati dall’Unione Sovietica nel ‘900, si sono tranquillamente accasati sotto l’ombrello della Nato. Per l’Ucraina, agli occhi di Mosca, il discorso è però diverso. Non si tratta di un paese invaso dall’armata rossa. Fa parte di una storia differente. Pensare che le parole di disappunto di Mosca, sulla gravità dell’attrazione di Kiev nell’orbita della Nato, fossero delle semplici chiacchiere destinate a rimanere scariche dinanzi alle operazioni occidentali di assistenza, addestramento e fornitura di armi si è rivelato un errore di valutazione. La negazione delle basi strategiche stesse delle preoccupazioni russe, riferibili alla temuta lesione dei propri interessi a conservare una sfera di influenza e a preservare la sicurezza e l’integrità dei confini, è stata pagata con la resurrezione della più spietata logica dell’aggressione militare.

Spenta la via del negoziato, misconosciuto il principio della influenza regionale, la Russia per il riconoscimento delle proprie ambizioni ha riesumato l’armamentario della più antica e pura politica di potenza. La guerra, più pudicamente denominata “operazione speciale”, è stata reintrodotta come metodo di influenza illegale a disposizione di una nazione che è stata degradata e, con ufficiali angloamericani a Kiev, privata dello status di grande potenza. Pensare che la questione della influenza non abbia un solido fondamento politico-strategico-negoziale, e che l’emergenza si risolva con il ritmato “armi, armi, armi”, è il frutto avvelenato di una polarizzazione secca autocrazia-guerra mondiale densa di incognite.