Invocare i lavori socialmente utili per gli alunni negligenti e riottosi, come ha fatto recentemente Giuseppe Valditara, nuovo ministro dell’Istruzione e del Merito, significa spostare l’attenzione dalla dimensione educativa a quella giuridica: la classica scorciatoia punitiva e raramente formativa del vecchio maestro che non smette di suscitare consenso in chi osserva da fuori il mondo della scuola senza conoscerlo direttamente. Peraltro impiegare i ragazzi in azioni riparatrici è una procedura già conosciuta e talvolta praticata, ad esempio dopo i danni provocati alle strutture dalle occupazioni studentesche.

Cosa fare quando uno studente non accetta le regole e magari si lascia andare a un gesto violento nei confronti dell’insegnante? Se accade questo, qualcosa non ha funzionato: allora bisogna innanzitutto chiedersi perché. È il compito di ogni vero professore, il quale entra in azione quando scopre l’errore, vede l’inciampo, registra l’ostacolo: dovrebbe essere quello il suo mestiere. Nel momento in cui il fiume scorre tranquillo, tutt’al più si ritira soddisfatto. Di fronte all’allievo indisciplinato o ribelle, se vogliamo davvero recuperarlo, dobbiamo agire in un duplice modo: da una parte il docente è chiamato a incarnare il limite che il giovane deve rispettare, ripristinando così lo spazio dialettico indispensabile al suo sviluppo; dall’altra sarà fondamentale non isolarlo dal resto della classe, bensì tenerlo all’interno del gruppo facendogli comprendere come e dove ha sbagliato. Responsabilizzarlo, questo sì, ma nell’ottica di un reinserimento attivo. Certo non basterà chiedergli di osservare il precetto, soprattutto se lui si è già rifiutato di farlo. Sarà necessario prima riconquistare la sua fiducia. Il che comporta sempre un paziente e imprescindibile lavoro di conoscenza reciproca.

Ovviamente non stiamo parlando di criminalità: in quei casi esiste il codice penale. Intendiamo riferirci alla tensione presente in qualsiasi adolescente che talvolta esplode nell’aula scolastica, il luogo in cui, fra prove ed errori, vittorie e sconfitte, si comincia a conoscere se stessi nel rapporto con gli altri coetanei e con gli adulti che non appartengono alla famiglia. Si tratta di un percorso lungo e dissestato che non dovremmo sottovalutare. Proviamo a pensarci: ogni quindicenne è chiamato a rifare, nel suo piccolo, la storia della civiltà; deve cioè sperimentare in poco tempo sulla propria pelle ciò che gli esseri umani hanno conseguito a fatica nei millenni, passando dallo stadio istintivo a quello razionale, dalla pura legge della sopravvivenza alla coscienza morale.
La stessa scuola rappresenta un’invenzione umana, non esiste in natura: si tratta del modo in cui le generazioni si passano il testimone una con l’altra.

Una straordinaria convenzione. Tecniche, formule, idee, sapienze, lingue, scienze, culture. Ecco perché l’istruzione pubblica non può essere liquidata come un diplomificio, crocevia di traffici concettuali, spazio specialistico separato dalla vita. Al contrario dovrebbe costituire l’intensificazione dell’esistenza, oltre che il centro istituzionale in cui si edifica la coscienza dei futuri cittadini. Uso il condizionale perché purtroppo non sempre è così. Troppo spesso ci dimentichiamo la lezione dei grandi educatori: da John Dewey a Maria Montessori, da don Lorenzo Milani a Paulo Freire, tutti uniti, pur nelle innegabili differenze, dalla medesima convinzione: ciò che davvero conta negli ambienti scolastici è la qualità della relazione umana che si riesce a realizzare.