Lo scrittore Paolo Nori nel 2021 ha pubblicato Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fedor M. Dostoevskij. Ieri ha ricevuto dall’Università Bicocca di Milano una lettera di revoca della sua lecture. Incredulo e rabbioso, l’ha letta in un video che sui social ha reso con forza l’idea della sua contrarietà. «Io penso che quello che sta accadendo in Ucraina sia una cosa orribile – ha detto in un video – e mi viene da piangere solo a pensarci. Ma quello che sta succedendo in Italia oggi, queste cose qua, sono cose ridicole: censurare un corso è ridicolo». «Non solo essere un russo vivente, oggi è una colpa, in Italia, anche essere un russo morto. Che quando (Dostoevskij, ndr) era vivo nel 1849 fu condannato a morte perché aveva letto una cosa proibita». A seguito dell’ondata di indignazione suscitata, il Prorettore dell’ateneo milanese è tornato sui suoi passi. La lezione si terrà. Ma rivela un clima pericoloso, in cui si arriva a identificare l’avversario (Putin) con la cultura di cui la Russia è interprete.

Un episodio grave di russofobia, quello che voleva impedire a Paolo Nori di parlare di Dostoevskij alla Bicocca di Milano. Cosa sta succedendo?
Come accade spesso nei momenti di crisi, succede che ti va in crisi il cervello. Ed è il pericolo più tragico che in periodi di questo genere ti possono capitare. Quando cessi di ragionare, di articolare il discorso e procedi per grumi: sì sì, no no. Nero e bianco. Buono e cattivo. Le forze del male contro le forze del bene. Si sta precipitando in questa deriva.

Una deriva manichea.
Ma il manicheismo era una cosa diversa, tutto sommato. Anche perché si proiettava su uno sfondo teologico che oggi manca completamente. Direi invece: una deriva psicofisica.

Colpa dei media?
I media in questi giorni di alta tensione sono straordinari: scombinati, privi di direzione, sempre peggio.

La russofobia è antropologicamente preoccupante.
È una follia. Si tratta per l’ennesima volta della manifestazione di una guerra civile europea. Perché soltanto i pazzi possono pensare che Mosca non faccia parte del multiverso dei linguaggi europei.

Proprio per il nostro Dna culturale.
Prendere Dostoevskij, Tolstòj e Puškin e metterli altrove rispetto all’Europa può essere una operazione che solo un demente può fare.

Frutto di ignoranza diffusa, di una disattenzione di massa?
No, frutto di demenza. Perché l’ignoranza di per sé è perfino un fatto scusabile. Solo un demente può compiere questo scempio che io colloco all’interno della guerra civile europea, come suo ultimo atto.

L’umanesimo contemporaneo europeo si può leggere senza i russi?
Ma no. No. Abbiamo bisogno di dirle, queste cose? Ma scusi, come si fa a pensare all’Europa senza la grande filosofia illuministica? Alla corte di Caterina di Russia ci stavano i Diderot, i Voltaire. Tutta la nostra cultura idealistica che si trapianta in Russia, con Herzen (Aleksandr Ivanovič Gercen, ndr). Dall’idealismo al marxismo, che in Russia non nasce con Lenin ma c’era anche prima. E arriviamo all’hegelismo. La grande cultura apocalittica russa, Dostoevskij in primis. La grande catastrofe della prima guerra mondiale vissuta dagli europei la descrivono loro, basta leggersi il Diario dello Scrittore di Dostoevskij. Ma davanti a certe cose cadono le braccia, non viene neanche più voglia di articolare un discorso. Viene semplicemente voglia di prendere a calci in culo i dementi che prendono l’iniziativa di bloccare un corso su Dostoevskij.

Per non parlare della politica. Non si può capire Gramsci senza la Russia.
Né il Pci. Né la storia del Novecento italiano, sostenuto in un campo e nell’altro dal paradigma russo. Don Camillo e Peppone, a un certo punto, volano insieme a Mosca… La guerra ideologica è stato un conflitto strisciante tra le culture europee. Una corrente che certamente nasce dall’idealismo, dal marxismo e poi si traduce in Russia in un determinato modo e da noi in un altro, tenendosi insieme in un confronto – scontro a distanza, ma che comunque nasce dallo scorrere della storia che sempre sfocia in quei conflitti generativi di nuove idee, anche politiche. Ci sono stati anche conflitti tra marxismi diversi, all’interno di un universo formato da linguaggi filosofici, politici, scientifici europei.

La Corazzata Potëmkin con la scalinata sul porto di Odessa di che cosa ci parla? È storia ucraina, russa o europea?
È storia europea. È la vicenda della guerra civile europea, tra le varie isole, tra i vari spazi europei sono continuati conflitti che è difficile armonizzare. Sono spazi e linguaggi che confliggono ma che appartengono tutti chiarissimamente a una matrice comune.

La sentiamo amareggiato.
Non sono amareggiato, sono disperato. Quando si arriva a questi livelli non c’è più niente da fare. E ogni parola diventa inutile. Significa che tutto il lavoro di culturalizzazione, di educazione di un popolo non ha funzionato: non ha funzionato la scuola, l’università, i giornali, il dibattito pubblico. Ci si schiera subito da una parte contro l’altra e tutto è polarizzato fino all’estremo. Fino a non vedere, fino al rinnegare la storia, la natura, la sostanza dei fatti.

La Bicocca ha poi riammesso la lezione di Paolo Nori.
Non importa. Già il fatto che avessero pensato di sospendere un corso di storia letteraria è gravissimo di per se stesso. È il segnale e il sintomo di una cosa che riguarda tutti.

Oggi non si parla più di Covid, solo di Russia.
Ma il modo in cui se ne parla è praticamente lo stesso.

L’impero del male contro l’impero del bene…
Sì, siamo fermi lì. Noi siamo il giusto. Siamo la giustizia contro l’ingiustizia. Incarniamo i valori contro i disvalori. Siamo l’umano e combattiamo contro il disumano. Siamo a questi livelli, e non c’è niente da fare. È tremendo.

Come se ne esce?
Non se ne esce più. Si sta avvicinando il momento della catastrofe vera e da lì, forse, rinascerà qualcosa.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.