L’Italia provinciale scopre che esiste l’Ungheria. E lo fa da par suo. Inneggiando al satrapo di turno ovvero schierandosi contro l’ennesimo attacco al cuore della Democrazia. E, pertanto, non capendo nulla e proponendo niente. Per anni ad Est del Reno sono successe cose commendevoli sul piano dell’attacco alla società liberale, ma a parte voci isolate, ha prevalso la realpolitik intrisa di vuoto strategico, di prospettiva. Il processo di allargamento dell’Unione europea dopo il 1989-1991 è stato un passaggio rilevante, cruciale, per consolidare il processo di integrazione e per taluni il disegno federale e federalista continentale. Nei primi lustri post caduta del Muro di Berlino il consenso popolare per l’adesione all’Ue era ampio e diffuso, sostenuto dall’anelito libertario e dalle cospicue risorse materiali e simboliche derivanti dalla membership.

Il cosiddetto Quinto allargamento iniziato nel 2004 era ambizioso e doveva coronare il progetto (per taluni il sogno e l’aspirazione) di ricomporre il continente europeo dopo le lacerazioni della Guerra Fredda derivanti a loro volta dalla Seconda guerra mondiale. Ossia l’area geografica più sanguinosa al mondo che, su basi religiose prima, nazionaliste e ideologiche poi, si era letteralmente massacrata dando vita anche a conflitti planetari. Definite persino “guerre civili” (Raymond Aron ed Ernst Nolte) sottolineando la comune matrice culturale dei popoli che le combatterono. L’adesione europeista offriva due potenti incentivi: uno simbolico, l’altro materiale. Il primo permetteva a popoli piegati per oltre mezzo secolo al giogo nazista e sovietico di affrancarsi entrando nel gruppo delle Democrazie “avanzate” da sempre viste come un modello alternativo alla catena cavernicola del socialismo reale; il secondo, di conseguenza, raccontava il desiderio ravvicinato del benessere cosmopolita e capitalista, immediato, individualista e totalizzante.

Le “promesse non mantenute” della Democrazia europea – direbbe Norberto Bobbio – sono quelle di un debole contrasto alle grandi Corporations del web (“interesse di parte su quelli politici”), la persistenza di oligarchie (ridotta partecipazione al processo decisionale, spesso troppo opaco, “cripto governo” per Bobbio), il cittadino non educato alla politica, non incluso. Le occasioni mancate sono varie, al pari dei successi. In periodi eccezionali però manca il salto decisivo, dal welfare rafforzato, al modello di sviluppo, dai diritti, all’ambiente, agli ideali di democrazia da tradurre non solo in politiche pubbliche, ma in scelte strategiche. Senza dimenticare lo straordinario esempio che l’Unione rappresenta nel mondo. Potenza commerciale, esempio di civicness, prosperità, democrazia, pace. Questioni troppo rapidamente sorvolate o persino assunte quali pre-condizioni tra le “promesse” europeiste e quindi sussunte nella bandiera a dodici stelle.

L’Europa unita è oggi in pericolo, e con essa è a rischio parte della civiltà europea, frutto di secoli di compromessi, guerre e processi incrementali. Momenti tetri. Da cui si esce con idee e leader. In questa fase vengono ripresi Nevill Chamberlain e Winston Churchill. Evocati a (s)proposito. Perché Chamberlain era Chamberlain. E Churchill era e, in realtà, divenne Churchill proprio durante la guida del governo di unità nazionale. Però aveva manzonianamente i talenti, ossia le qualità di leader, una risorsa notoriamente distribuita in misura diseguale tra gli esseri umani e quasi mai colmabile, tanto meno con eroici atti di volontarismo. Ma anche perché, oltre alle doti, innate e acquisite, Churchill aveva il sostegno di una classe dirigente partitica, e parlamentare, di livello.

I leader individuali hanno bisogno di conoscenze diffuse (oltre che di staff, come descrive il bel saggio di Antonio Funiciello, Il metodo Machiavelli), di una classe dirigente non solo politica. Le condizioni in cui versa quella italiana sono auto-evidenti, conclamate, sature di mediocrità compiaciuta e persino sfrontatamente ostentata. Ma soprattutto, tanto da rappresentare la colpa più grave di un Paese, di una società, accettate supinamente come inevitabili, e sostenute con ostinata volontà, nel voto e nella non cultura diffusa.

Viceversa, una società e un Paese ambiziosi, e non solo colmi di boriosa arroganza gastronomica e orgoglio per arte pre-Unificazione, coltiverebbero virtù intellettuali, sapere diffuso e conferirebbero il governo ai “migliori”. Così potrebbero difendere e promuovere l’amor patrio, non solo i valori, ma cinicamente gli interessi nazionali, quelli commerciali ed economici, quelli identitari. Nel complesso mondo globalizzato l’Italia spingerebbe per procedere all’integrazione federalista compiuta, ché il modello intergovernativo ha mostrato ripetutamente i suoi limiti (come ricorda settimanalmente Sergio Fabbrini dalle colonne del Sole 24 Ore). Una classe dirigente, italiana ed europea, effettivamente lungimirante dovrebbe accelerare sul processo di adesione dei paesi balcanici nell’Ue.

Il cosiddetto Sesto allargamento consentirebbe all’Italia in primis di giocare un ruolo di primo piano, di attore strategico sul piano regionale, di king-maker della politica estera nel Mediterraneo. Ne trarrebbe beneficio l’intero continente, l’Europa e l’interesse nazionale italiano, lasciato invece sbandierare a figuri di incerte cadenze e fatue visioni. Nei Balcani, da Podgorica a Belgrado, da Skopje e ovviamente a Tirana, l’Italia rappresenta L’america, il punto di riferimento culturale, ideale, sociale, valoriale. Ma per intercettare quelle aspirazioni, ad esempio, la Farnesina andrebbe guidata attingendo a un bagaglio culturale e politico fatto di conoscenze, reputazione, progettualità e leadership, non ad improvvisazioni fanciullesche, anche per valorizzare quanto di importante fatto negli anni precedenti.