Se c’è un uomo che conosce ogni “segreto” di Bruxelles, le dinamiche che regolano i rapporti all’interno degli organismi decisionali dell’Unione Europea, quest’uomo è l’ambasciatore Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai). Diplomatico di carriera dal 1972 al 2013, è stato Rappresentante permanente d’Italia presso l’Unione europea a Bruxelles (2008-2013), capo di gabinetto (2006-2008) e direttore generale per l’integrazione europea (2004-2006) presso il Ministero degli Esteri. L’ambasciatore Nelli Feroci ha anche ricoperto l’incarico di Commissario europeo per l’industria e l’imprenditoria nella Commissione Barroso II nel 2014. Il Riformista lo ha intervistato.

Ambasciatore Nelli Feroci, il Covid-19 rischia di “infettare” mortalmente l’Europa, sul piano politico come su quello economico e istituzionale?
L’epidemia del Coronavirus espone l’Europa ad una duplice, gravissima sfida: la prima, è quella dell’emergenza sanitaria. Noi sappiamo che l’Unione Europea non ha competenze proprie, può intervenire in materia di sanità soltanto con azioni di supporto e di sostegno a misure nazionali. È necessario che a livello europeo si faccia tutto il possibile per garantire la libera circolazione delle apparecchiature sanitarie e dei farmaci che servono per contenere l’epidemia. È necessario anche che si promuovano programmi di collaborazione per la individuazione di terapie efficaci e, in una prospettiva più lunga, di vaccini. Sarebbe stato opportuno che tutti gli Stati membri avessero preso tempestivamente consapevolezza della gravità della pandemia e adottato fin dall’inizio misure coordinate di contenimento del contagio. Vedo che stiamo faticosamente arrivando a questo risultato sotto la pressione e l’incalzare della pandemia.

E la seconda sfida?
C’è poi la sfida di contenere e ridurre l’impatto di quella che si prospetta come una drammatica recessione economica, e di gettare le basi per una ripresa dell’economia, della produzione e soprattutto dell’occupazione. I Paesi membri, in ordine sparso, hanno adottato misure che hanno come obiettivo, nell’immediato, un sostegno ai redditi delle persone fisiche e delle imprese, ed una prima iniezione di liquidità nei rispettivi sistemi economici. Naturalmente, l’intensità e il peso di queste misure nazionali sono diversi e corrispondono, in linea di principio, alle rispettive capacità dei bilanci nazionali. Questo potrebbe generare un rischio di performances differenziate tra Stati membri della stessa unione monetaria nella risposta alla crisi economica. A livello europeo c’è da registrare, dopo qualche esitazione iniziale, almeno tre misure significative: la prima è la decisione di sospendere l’operatività del Patto di Stabilità; la seconda misura è un alleggerimento significativo delle regole in materia di aiuti di Stato per consentire ai governi di intervenire con fondi pubblici al sostegno dei sistemi produttivi nazionali. La terza, quella più significativa, è la decisione della Bce di aumentare di ulteriori 350 miliardi di euro entro l’anno, il volume di acquisti di titoli pubblici e privati degli Stati membri, una misura che ha già consentito di mantenere sotto controllo l’evoluzione dei tassi d’interesse sui titoli sovrani.

Fin qui le note positive. E quelle dolenti, emerse con clamore anche negli ultimi giorni?
Il punto su cui non si è registrato accordo è quello relativo alla creazione degli Eurobond. Personalmente sono abbastanza scettico sulla prospettiva che possano cadere nelle prossime settimane le riserve del fronte dei Paesi settentrionali nei confronti di uno strumento che comporterebbe una qualche forma di mutualizzazione di debiti nazionali. Capisco molto bene le ragioni di chi li ha chiesti e ne ha fatto oggetto di una pubblica presa di posizione. Mi preoccupa, però, che in assenza di una risposta positiva, si stia sviluppando in Italia la consueta campagna di polemiche nei confronti dell’Europa insensibile alle richieste italiane. Lo abbiamo visto nel dibattito in Parlamento e nelle dichiarazioni alla stampa di molti esponenti politici, che hanno fatto ricorso al tristemente noto strumentario del peggior sovranismo. Se si riuscisse a impostare la discussione non su proclami contrapposti, ma su proposte concrete che, ad esempio, chiariscano chi dovrebbe emettere questi titoli di debito comuni, chi dovrebbe garantirli, quali spese dovrebbero finanziare, come dovrebbero essere distribuiti, si potrebbe facilitare un dibattito più sereno e meno ideologico. Un’ultima considerazione: ha certamente sbagliato la presidente della Commissione Europea (Ursula von der Leyen, ndr) quando ha dichiarato che i Coronabond sono uno slogan, perché il Consiglio Europeo ha dato un mandato all’Eurogruppo ad esaminare tutte le possibili opzioni, e la Commissione in questo contesto dovrebbe essere in grado di produrre un primo studio di fattibilità su questa proposta.

In un’intervista a Il Riformista, il professor Fitoussi ha sostenuto che questa drammatica emergenza sanitaria non dovrebbe essere vissuta solo come una minaccia ma come una straordinaria opportunità di ripensare un mondo nuovo e, in esso, una nuova Europa. È anche lei di questo avviso?
Al di là della mancanza di un accordo sugli Eurobond, io osservo che il progetto europeo è cresciuto anche grazie alle crisi e alle emergenze. Non c’è motivo per non ritenere che sarà così anche per l’emergenza Coronavirus. Questo soprattutto per due motivi: il primo, è che siamo in presenza di uno shock di natura epocale, ma simmetrico, che colpisce, cioè, tutti i Paesi membri dell’UE, e non può essere percepito che come una sfida comune. Il secondo motivo, è che per questa emergenza non possono essere invocate responsabilità nazionali, non ci sono, cioè, colpevoli ed innocenti, come fu il caso nell’occasione della crisi economica e finanziaria del 2008-2009.

Da più parti si è detto che nulla sarà più come prima dopo il Covid-19. Guardando all’Europa, come si può declinare questa “profezia”?
Mi sembra troppo catastrofista pronosticare la fine del progetto europeo, così come bisogna essere consapevoli che l’Unione Europea è in grado di assolvere a quei compiti per i quali i governi degli Stati membri le hanno assegnato responsabilità e strumenti per intervenire. Detto questo, mi auguro due cose: uno, che l’Ue si possa attrezzare meglio per affrontare emergenze sanitarie di questo tipo; due, che la sfida della inevitabile crisi economica acceleri il completamento della governance della nostra moneta comune.

Ora l’Europa è alle prese anche con il “caso Orban”.
La concessione di pieni poteri al Primo ministro, deliberata dal Parlamento ungherese, è una decisione grave che dovrà essere monitorata in tutte le sue implicazioni. Mi risulta che la Commissione europea abbia già aperto una indagine in questo senso. Deroghe in materia di poteri agli Esecutivi per far fronte all’emergenza del Coronavirus devono essere circoscritte e, soprattutto, temporanee. Sarebbe gravissimo se, sfruttando l’occasione della pandemia, il Primo ministro ungherese volesse instaurare un regime contrario ai principi e ai valori fondanti dell’Unione Europea. Sorprende che in Italia abbiano manifestato solidarietà a Orban proprio quegli esponenti politici che nei giorni scorsi hanno chiesto con insistenza il coinvolgimento delle opposizioni nelle decisioni del Governo e il massimo rispetto delle prerogative del Parlamento.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.