Massimo Teodori è uno dei più autorevoli esperti degli Stati Uniti d’America. Tra i suoi libri, ricordiamo: Ossessioni americane. Storia del lato oscuro degli Stati Uniti (Marsilio, 2017); Obama il grande (Marsilio, 2016); Storia degli Stati Uniti e il sistema politico americano (Mondadori, 2004) e, dal 20 maggio in libreria, Il genio americano. Sconfiggere Trump e la pandemia globale (Rubettino, 2020).

Professor Teodori, la notte più lunga d’America si è chiusa senza un vincitore. Il risultato è in bilico, in attesa del voto postale. Tuttavia Trump denuncia il tentativo di frode dei democratici e minaccia un ricorso alla Corte Suprema, nella quale può contare su una maggioranza di 6 a 3. Siamo alla notte della democrazia Usa?
Bisogna distinguere tra quelle che sono le regole costituzionali del sistema politico consolidato e quello che fa Trump. Quello che ha fatto durante i quattro anni alla Casa Bianca e che continua a fare oggi in occasione di queste elezioni. Le regole costituzionali rimangono ancora quelle della liberaldemocrazia, ma quello che fa Trump appartiene a un abuso del potere. Quanto poi alla minaccia di ricorrere alla Corte Suprema, qui siamo nel campo dell’azzardo più totale. Già le Corti dei singoli Stati americani hanno deciso entro quale giorno il conteggio dei voti postali andrà effettuato, per ogni singolo Stato. E ogni singolo Stato può essere decisivo per la vittoria finale. Quella evocata da Trump, è una mossa politica che potrebbe innescare effetti a catena davvero pericolosi. In due direzioni possibili: può aprirsi una crisi istituzionale e costituzionale a colpi di ricorsi e controricorsi e finire davvero alla Corte Suprema, dove attualmente la stragrande maggioranza è filo-repubblicana. In tal senso, la mossa di Trump si potrebbe intendere come la strada per vincere a ogni costo. Poi c’è un secondo livello: se tutto si blocca, c’è il rischio che si incendi il Paese e a farlo possono essere sia i suprematisti bianchi già sul piede di guerra che, in risposta, i gruppi violenti presenti all’interno del movimento nero. Disordini politici e sociali simili costituirebbero una prima, gravissima, volta per la storia degli Usa: interrompere lo scrutinio dei voti prima che siano stati tutti validati e conteggiati, è soltanto un tentativo di manipolare le elezioni.

Resta il fatto che il Covid-19 non ha travolto Trump, nonostante la sua pessima gestione della crisi pandemica. Come spiegare questo dato?
Bisognerà vedere un’analisi scomposta dei vari settori sociali e territoriali della popolazione. Certamente c’è stato nell’ultima settimana una grande ripresa di Trump, dovuta alla paura soprattutto dell’elettorato bianco, femminile e di una certa età, e di un comportamento non previsto in questa misura degli ispanici, i quali sono preoccupati per un doppio ordine di ragioni: che arrivino altri immigrati ispanici che farebbero concorrenza a chi è già impiantato negli Stati Uniti, e che possano governare democratici in odore di socialismo, soprattutto in tema di concezione della famiglia, religione cattolica, aborto, omosessualità, e quindi questo fattore riguardante la popolazione ispanica di fatto ha impedito che due Stati importanti come il Texas e la Florida potessero passare ai democratici nonostante il voto dei repubblicani sia stato di molto inferiore a quello del 2016.

In una nostra precedente conversazione, nel valutare la campagna elettorale, lei aveva sostenuto che in fondo il low profile di Biden poteva avere una sua forza attrattiva. Non si è rivelato invece un errore in un’America che Trump ha sempre più radicalizzato?
La campagna molto quieta, molto attendista di Biden -aspettava che Trump cadesse sulle sue stesse parole – probabilmente è stato un errore che si è scontrato con quella ripresa dimostrata negli ultimi dieci giorni, dopo l’uscita dal Covid, di Trump, che ha dato un’immagine di presidente in piene forze e aggressivo, cosa che invece non era prevedibile nel momento in cui è stato colto dal virus.

Quando vinse le primarie democratiche, e poi la corsa alla Casa Bianca per il suo primo mandato presidenziale, Barack Obama si era presentato ed era stato vissuto, e premiato, come un candidato anti-establishment. Lo stesso ha fatto Trump. Non ritiene che così come Hillary Clinton, anche Joe Biden sia stato percepito, soprattutto dall’America più profonda, come “uno di Washington”?
Non credo che l’effetto anti-establishment sia stato così importante per negare il voto a Biden, perché se così fosse stato, ci sarebbe stato, come nelle elezioni del 2016, un notevole voto per i Verdi, cosa che invece questa volta non è accaduto per nulla. Nel 2016, molti voti di sinistra, di coloro che avevano sostenuto nelle primarie dem Bernie Sanders, nel voto finale, popolare, andarono ai Verdi, i quali causarono di fatto la sconfitta di Hillary Clinton nei tre Stati della “ruggine”, e cioè in Pennsylvania, Michigan e Wisconsin. I democratici persero in quei tre Stati per pochissimi voti, rispettivamente 11mila, 25mila e 40mila, e in tutti e tre i casi gran parte dei voti democratici andarono in gran parte al candidato verde. Questa volta il candidato verde non ha preso alcun voto, almeno dai dati che conosco in questo momento.

Che cosa c’è da attendersi, da qui ai prossimi giorni e settimane, in questa America che comunque si scopre non solo spaccata a metà ma più incattivita e radicalizzata?
Nel Partito democratico c’è da aspettarsi che Biden, se non viene eletto, venga messo da parte, perché probabilmente il grande errore non è stato quello di Biden membro dell’establishment, anche perché Biden è stato sempre legato agli strati più umili dei lavoratori, ai sindacati, ma il più grande errore è stato quello di mettere in prima fila un personaggio che dava l’impressione di essere non solo vecchio ma molto poco portante. Direi che questo sia stato l’elemento che lo ha privato di qualche voto rispetto all’immagine molto aggressiva e molto prorompente di Trump. Quindi per il futuro c’è da aspettarsi, se Biden non va alla Casa Bianca, che il Partito democratico si dia una leadership che sia più giovane, che sia diversa da quella da cui viene Biden. Cosa che non ha potuto fare in queste elezioni, perché Biden era l’unico personaggio centrista attorno al quale si poteva creare l’unità del partito anche con la sinistra. Nel futuro è possibile, sul versante dem, che si andrà alla ricerca di una leadership più giovane ed anche che potrebbe determinarsi se non una separazione certamente un conflitto fra l’ala centrista moderata e l’ala di sinistra che riprenderà fiato dopo l’unità dimostrata in queste elezioni.

E i Repubblicani?
Se Trump dovesse vincere ancora, il Partito repubblicano diventerà definitivamente il partito degli evangelici fondamentalisti con una appendice nei gruppi suprematisti bianchi di ogni tipo, mettendo definitivamente da parte la tradizione repubblicana liberalconservatrice e internazionalista. Se invece Trump dovesse perdere, allora può avvenire il contrario, e cioè che la vecchia anima repubblicana, conservatrice ma liberale e internazionalista, rispunti fuori in una qualche maniera trovando qualche suo leader nell’ambito del Senato o nell’ambito dei governatori.

Si dice che nel primo mandato la mission del presidente sia quella di essere rieletto per un altro quadriennio, e che nel secondo mandato sia di entrare nella storia. Se fosse così per Trump?
Se fosse così per Trump, la storia della democrazia americana correrebbe il pericolo di essere trasformata in una democrazia illiberale di cui non conosciamo i contorni.

E se alla Casa Bianca s’insediasse Biden? Quale potrebbe o dovrebbe essere, a suo avviso, la prima mission da presidente?
Sicuramente Biden è una persona molto attenta alle disuguaglianze sociali, quelle disuguaglianze che sono emerse in maniera clamorosa proprio con il Covid, durante il quale la mortalità delle persone disagiate, marginali e povere non bianche è stata tre volte superiore a quella dei bianchi. Questo problema che gli Stati Uniti si trascinano da molto tempo dovrebbe essere affrontato da un democratico tradizionale, sempre attento alle questioni dei lavoratori e dei ceti più marginali.

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Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.