La scelta di Gaetano Manfredi come candidato sindaco di Napoli per il “campo progressista” è stata salutata come un grande successo dai dirigenti del Partito democratico. Al punto tale che Marco Sarracino ha immediatamente parlato del Pd partenopeo addirittura come di un «modello nazionale». Ecco le parole che il segretario metropolitano ha utilizzato nel corso di un’intervista al Mattino. Diciamoci la verità, la soddisfazione è comprensibile: dopo mesi di trattative con le varie anime del centrosinistra e col Movimento Cinque Stelle, aver individuato un candidato come l’ex ministro dell’Università è gratificante e, per certi versi, anche liberatorio. Da qui a presentare il Pd partenopeo come un modello nazionale, però, ce ne corre. Basta osservare le contraddizioni in cui i dem cascano quando celebrano le «magnifiche sorti e progressive» del centrosinistra.

La prima riguarda il carattere eterodiretto di questo presunto modello. La candidatura di Manfredi, infatti, è frutto di un accordo stipulato a Roma, quindi a prescindere da qualsiasi scelta autonoma del livello locale del Pd, e ha l’obiettivo di rinsaldare il legame tra dem e M5S in vista del rinnovo del Parlamento nazionale, prima ancora che di dare una prospettiva a Napoli. E poi c’è proprio Manfredi. Il suo è un profilo senz’altro autorevole alla luce delle esperienze da rettore dell’università Federico II di Napoli e di presidente della Crui, prima ancora che di ministro nel governo Conte bis. Non si capisce, dunque, perché il Pd lo abbia sacrificato con tanta nonchalnce quando si è trattato di indicare i nomi dei propri esponenti destinati a entrare nell’esecutivo Draghi. Anzi, in quella circostanza i vertici dem hanno puntato sui leader delle tre correnti che animano il partito – Andrea Orlando, Dario Franceschini e Lorenzo Guerini – anziché su un profilo come quello dell’ex rettore. Ragion per cui l’indicazione di quest’ultimo come candidato sindaco sembra quasi una scelta compensativa che non si addice a un modello come quello sbandierato da Sarracino.

La terza contraddizione riguarda quell’Antonio Bassolino che ha annunciato la propria candidatura a sindaco ben prima di quella di Manfredi e al quale tutti i maggiorenti del Pd chiedono ora di fare un passo indietro. Si è mosso in prima persona Enrico Letta: «Vorrei che Bassolino ci aiutasse nello sforzo di sostenere Manfredi», ha detto il segretario nazionale dopo aver ricordato che don Antonio «merita rispetto e anche scuse vere» per l’isolamento cui il Pd l’ha relegato all’indomani dei primi avvisi di garanzia. Il partito intende coinvolgere Bassolino nella ricostruzione di Napoli? Bene, ma allora non si comprende per quale motivo ne abbia ignorato la disponibilità e l’impegno politico per anni. E il fatto che le scuse arrivino soltanto adesso, sette mesi dopo l’ultima delle 19 assoluzioni inanellate da Bassolino e a ridosso dell’investitura di Manfredi, fa capire quanto opportunismo si celi nelle parole di Letta.

Più che orientate a ricucire il rapporto con uno dei fondatori del Pd, le esternazioni del segretario dem sembrano precostituire un alibi per il caso in cui Bassolino dovesse sottrarre a Manfredi i voti decisivi per essere eletto sindaco. Ma la vera chiave è un’altra: di autentico modello si potrà parlare soltanto nel caso in cui il Pd dovesse ricavare dall’alleanza con il M5S una quantità di voti superiore a quella di cui Bassolino è portatore. Prima di quel momento, non si potrà parlare di «modello» ma solo di «teoria del caos».

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Classe 1987, giornalista professionista, ha cominciato a collaborare con diverse testate giornalistiche quando ancora era iscritto alla facoltà di Giurisprudenza dell'università Federico II di Napoli dove si è successivamente laureato. Per undici anni corrispondente del Mattino dalla penisola sorrentina, ha lavorato anche come addetto stampa e social media manager prima di cominciare, nel 2019, la sua esperienza al Riformista.