Esiste un consenso pressoché unanime sul fatto che la Guerra fredda abbia salvato il mondo. Tale “successo” non è stato il frutto di una scelta morale, ma una necessità, non priva di costi altissimi. Soprattutto per quei popoli che sono rimasti vittime delle logiche di potenza, pagando sulla propria carne, per intere generazioni, le conseguenze schiaccianti dell’equilibrio dei blocchi. La Guerra fredda ha imposto una durissima verità. Quella per cui la riprovazione morale, filosofica, politica per quello stato di cose e per i responsabili di quello stato di cose, ha dovuto cedere il passo alla realistica constatazione che non vi potessero essere alternative. Accettare che i sistemi e i dispositivi totalitari operassero pressoché indisturbati e minacciosi, senza che si potesse reagire in modo definitivo, è stato uno dei prezzi forse simbolicamente più alti dell’equilibrio dell’era atomica.

La Guerra fredda è stata l’impero del realismo. Ed è forse anche per questo che oggi, di fronte alla vicenda ucraina, ripugna una sottomissione al realismo. Le immagini di distruzione, di vite umane spezzate, come quella che le televisioni rovesciano nelle nostre case continuamente, rendono impossibile evitare lo sgomento e restare distaccati. Siamo indignati e impotenti. Sì, ancora una volta impotenti, perché l’orizzonte della distruzione nucleare, biologica, chimica, non si è affatto allontanato, ed è oggi semmai ancora più orrifico. A ciò si aggiunga che, almeno in Occidente, la parabola dell’opulenza e del benessere, pur problematica per le tante crisi degli ultimi anni, continua ad essere alta, così come alta è la convinzione che il nostro benessere sia legato anche a beni immateriali come la libertà, la democrazia, lo stato di diritto. Per quanto piena di difetti la nostra civiltà ci appare il meglio possibile. Dopo la caduta del muro di Berlino ci eravamo illusi non solo che la guerra fredda fosse finita, ma che fosse risorto il diritto alla riprovazione morale, filosofica e politica di ogni abuso nei confronti dell’uomo.

La tutela umanitaria ci era apparsa, ormai, come una scelta non negoziabile. Quello sdegno e quella riprovazione morale, filosofica e politica verso l’orrore e verso i governi e i dispositivi autoritari adesso li vorremmo urlare. E la sola ipotesi di piegarci e sottometterci alla Realpolitik, ci appare una bestemmia contro la civiltà e contro l’uomo. Questo spiega perché nel dibattito pubblico sulla guerra, soprattutto in Italia, non c’è praticamente spazio per posizioni articolate e problematizzanti sulle cause più o meno lontane di questa situazione. Anche quando si tratta di posizioni autorevolissime e degnissime, che provano a comprendere – il che non significa affatto giustificare – cause e concause, ogni sfumatura diviene un cedimento al “nemico”.

In queste settimane si sono pronunziate decine di analisti, studiosi, intellettuali, di tutto il mondo, proponendo riflessioni spesso molto divergenti, anche quando di altissimo livello. Ma tutto questo dibattito suona quasi un insulto di fronte all’orrore. Tanto che persino i più autorevoli esperti e studiosi, allorché avanzano opinioni non allineate con quelle dominanti, sentono il bisogno di professare il proprio anti-putinismo, come un lavacro di possibili colpe e probabili sospetti. Ci sarà tempo per riflettere su queste dinamiche e sui rischi di appiattimento del pensiero su poche, decisive, parole d’ordine, quando non addirittura anatemi. Quello che però non si può evitare, oggi, se veramente si tiene alla pace, è che al di là degli scontri sulle ragioni storico-politiche e al di là dell’orrore quotidiano, da questa situazione non si uscirà se non accettando i possibili scenari che la realtà e solo la realtà può consegnarci. E allora il pensiero dovrà nuovamente inabissarsi nella complessità.
Questi scenari sono fondamentalmente tre.

Il primo è quello dell’escalation inarrestabile. Non vogliamo nemmeno pensarci, ma nessuno la può escludere. Anche perché la caratteristica dell’escalation è che la situazione, rimasta troppo a lungo border line, alla fine sfugge di mano. Il secondo scenario è quello di una vittoria chiara e definitiva di uno dei due contendenti, verosimilmente la Russia, senza che il conflitto però deflagri sul piano regionale e mondiale (che scatenerebbe lo scenario numero uno). È un’ipotesi possibile. Ma gli sconfitti e i loro “alleati” difficilmente la accetterebbero. Non che, ad esempio, una disfatta dell’Ucraina non possa essere, alla fine, subìta dalla comunità internazionale, in nome di una frettolosa conversione al realismo e al cinismo. Non sarebbe una novità. Ma sarebbe il disvelamento di una atroce ipocrisia, di un tradimento di quella promessa di non deflettere dai proclamati ideali, in nome di una sottomissione al più vieto opportunismo, ancora più grave, in quanto ipocrita e tardivo, del realismo della guerra fredda.

Il terzo scenario è quello del compromesso, della soluzione negoziale. E questa, all’evidenza, è la strada auspicabile, ma anche difficile. Perché oltre alla trattativa sugli assetti e sulle soluzioni, si dovrebbe trovare, soprattutto nel campo occidentale, un compromesso tra slanci ideali e realismo, tra valori e forza delle cose. La riprovazione politica, morale e filosofica, dovrebbe cedere spazio (ma quanto spazio?) al riconoscimento delle pretese del nemico che non si può schiacciare. In questo scenario, il senso della complessità e della problematicità diventerebbero nuovamente strumenti necessari, la profondità storica delle vicende, il riconoscimento della radicale diversità delle prospettive, guadagnerebbero nuovamente spazio e la confort zone delle semplificazioni e degli anatemi dovrebbe essere abbandonata. E forse ci accorgeremmo che le voci fuori dal coro, su ogni versante, non erano rivolte a un’infame intelligenza con il nemico, ma una risorsa per figurare le condizioni del compromesso possibile, rispetto alle incoscienti e semplicistiche velleità distruttive e autodistruttive. Se ciò accadesse, la guerra fredda ci avrebbe veramente insegnato qualcosa.