Il muro di Berlino non fu fatto in un giorno, ma crebbe come un mostro proprio in questi giorni d’agosto di sessanta anni fa: calendario alla mano, bisogna avere almeno ottant’anni per ricordare il clima di quel mese d’agosto 1961, seconda settimana. Tutti quelli che sono nati dopo sono troppo giovani per ricordare l’enormità di quell’evento duraturo e mostruoso che mise agli arresti un popolo. In fondo, è più facile ricordare l’abbattimento a furor di popolo di quel muro nel 1989, quando Michail Gorbaciov raccolse l’invito del presidente americano Ronald Reagan che gli aveva gridato: “Mister Gorbaciov, tire down that wall, butti giù quel muro”.

Ma come era nata questa storia unica nel mondo moderno e forse anche in quello antico? Sono stati costruiti muri di ogni genere, bastioni per difendere città e imperi dagli attacchi e dalle invasioni, ma mai per imprigionare gli abitanti. Questo fu il muro: una barriera per trasformare una città in prigione e da cui infatti a migliaia cercavano di scappare scavando gallerie catapultandosi oltre il muro, morendo colpiti dai mitra dei VoPo (la polizia popolare) o fracassandosi con un camion lanciato contro la barriera rafforzata da lastre d’acciaio. Quando fu terminato il muro di Berlino proseguì come una metastasi lungo il confine della Repubblica democratica tedesca governata da Walter Ulbricht: i villaggi, le case, i cortili, le famiglie, gli sposi, i nonni e i nipoti i fidanzati, gli amici furono separati dalla muraglia.

I berlinesi si erano accorti che qualcosa di pessimo era in preparazione perché all’inizio di agosto del 1961 comparvero in città folte squadre di spazzini e muratori scortate da agenti armati. Questi operai avevano l’ordine di ripulire un tracciato che attraversava la città. Comparve una striscia bianca dipinta col gesso e poi su quella striscia furono scavati dei fori quadrati e profondi in cui il giorno dopo furono infilati verticalmente pali di cemento. Allora i berlinesi capirono quel che stava succedendo anche se erano sicuri che qualsiasi ostacolo venisse eretto ci sarebbero state comunque delle uscite, dei passaggi. Ma qualcuno diceva che il muro non avrebbe avuto porte né finestre e avrebbe impedito anche lo sguardo attraverso le case e i cortili. Si sparse il panico. E allora Ulbricht, che fra le sue qualità di dirigente del partito aveva una naturale tendenza a mentire spudoratamente, si precipitò alla radio per pronunciare un discorso suadente in cui disse: «I nostri nemici capitalisti stanno spargendo la voce falsa secondo cui noi vorremmo costruire un muro a Berlino. Nulla di più falso. Non ci sarà nessun muro a Berlino».

Chi ha visto il film Le vite degli altri ha visto una ricostruzione molto fedele del panico e dello smarrimento incredulo di quei giorni in cui i pezzi prefabbricati davano forma al mostro: cordoli di cemento in orizzontale. Grossi mattoni di graniglia bianca impilati con la calce. Poi lunghe putrelle di ferro sopra i mattoni. La gente era impazzita e aveva finalmente capito. I ragazzi più giovani si arrampicavano e cercavano di saltare dall’altra parte. I più vecchi urlavano alle impassibili guardie armate che dovevano andare a casa dove la moglie li aspettava. Niente da fare. Il panico diventò certezza e la gente restò a guardare la crescita del mostro con occhi pieni di lacrime.

Era stato Ulbricht più che i russi a volere quella muraglia. Il vecchio comunista sopravvissuto ai nazisti e alle purghe staliniane era molto fiero di essere il capo di una Germania finalmente comunista, ma si era reso conto che più di tre milioni di tedeschi se l’erano filata passando a Berlino ovest. La Germania era stata divisa in quattro zone di occupazione: la più grande, quella sovietica, e poi quelle americana inglese e francese. Le zone occidentali erano state subito riunite in un’unica Germania federale che avrà come sua capitale Bonn, fino alla caduta del muro e il ritorno di Berlino capitale con Kohl. Ma la vecchia capitale declassata e occupata galleggiava nella Germania comunista e metà di essa era sotto il comando sovietico mentre l’altra metà era protetta dalle guarnigioni americane, francesi e inglesi. Erano funzionanti alcuni punti di passaggio fra le due metà del muro dove i berlinesi potevano transitare liberamente: il più famoso fu il checkpoint Charlie, sorvegliato dai carri armati americani, il portale da cui era possibile sparire dal mondo comunista e riapparire in quello occidentale.

Di notte la Germania dell’Est era buia mentre quella occidentale tripudiava di luci. La guerra fredda era anche propaganda e la Germania occidentale era l’albero di Natale sempre acceso in cui tutti apparivano occupati, sereni, liberi. Soprattutto liberi. Quando cominciò la costruzione del muro a Berlino era cominciato anche il Festival cinematografico con le grandi star di allora, gli abiti da sera, i paparazzi, i giornalisti e i curiosi. La tragedia si stava consumando in maniera lenta ma terribilmente organizzata. Come abbiamo appunto detto aveva fatto tutto Ulbricht, il quale faceva la spola tra Berlino e Mosca dove andava a perorare la sua causa da Krusciov e dal ministro degli Esteri Gromyko sostenendo che lui non poteva guidare un paese in via di estinzione e che bisognava fare qualcosa e quel qualcosa doveva essere una barriera che impedisse ai suoi sudditi di filarsela in Occidente.

Nikita era poco entusiasta di una soluzione che avrebbe portato a uno scontro con gli americani e nessuno poteva sapere come sarebbe finito quello scontro. Il nuovo presidente americano John Fitzgerald Kennedy aveva un volto simpatico e una espressione decisa, ma si limitò a lanciare un avvertimento generico: “Non azzardatevi a toccare Berlino”. Krusciov, che già lo odiava perché lo considerava un rampollo miliardario di una casta di imperialisti sfrontati decise di correre il rischio e dette ordine di tirare su il muro. Il comandante dei reparti blindati americani raccontò delle ore tremende in cui lui e i suoi uomini avevano ricevuto l’ordine da Washington di non sparare un colpo a nessun costo e di tenere le mani lontane dal grilletto.

Di fronte avevano colonne di carri armati russi e gli uomini si guardavano dalle torrette mentre il muro seguitava a crescere con nuove integrazioni ingegneresche. Non c’era soltanto il muro: al di là si trovava uno spazio piatto dove sparare con le mitragliatrici a chi fosse evaso e poi fili spinati, punte di ferro e trappole. I berlinesi però già scavavano dovunque potessero e scoprivano i passaggi nelle fogne, organizzando spedizioni per andare a prendere figli e genitori. John Fitzgerald Kennedy fece la voce grossa ma confidò ai suoi che questa soluzione del muro, per quanto odiosa, metteva comunque ordine in una frontiera troppo carica di rischi dove la guerra sarebbe potuta scoppiare per caso.
Ciò che stavano facendo i comunisti, disse, era orribile, ma al tempo stesso era quanto si meritavano perché una tale costruzione appariva un tale monumento alla vergogna da provocare un effetto di repulsione verso tutto ciò che era sovietico favorendo il mondo occidentale.

La crisi durò fino a ottobre, quando finalmente gli schieramenti dei blindati furono ritirati a distanza ragionevole e la città prese un aspetto tristissimo ma in qualche modo normale. Krusciov ora diceva che Berlino con dentro americani, inglesi e francesi era un’offesa alla storia e che si trattava di una metastasi che bisognava al più presto eliminare mondando il territorio della Repubblica democratica tedesca da questa cisti. La sua prossima mossa sarebbe stata quella di assediare per fame Berlino Occidentale con il blocco delle autostrade e di tutti i mezzi di comunicazione. A quel blocco gli americani risposero con una delle loro operazioni più celebrate: un ponte aereo costosissimo e continuo che avrebbe rifornito la città occidentale di tutti i beni necessari, dalla carta igienica ai vestiti alle scarpe, il carburante, le stufe, le medicine, i pezzi di ricambio, ma anche di medici, tecnici e operai occidentali in grado di riparare e far ripartire la città.

Negli anni 70 e 80 sono stato a Berlino molte volte al di qua e al di là del muro. Gli amici tedeschi mi dicevano che la lingua stava modificandosi, che ormai ad est ed a ovest si parlavano due forme diverse di tedesco, una occidentalizzante, l’altra fondata sul prussiano classico. Ulbricht fece rispolverare tutte le antiche uniformi tradizionali prussiane che davano all’armata popolare molte caratteristiche simili a quelle naziste. Del resto, tutti i nazisti sopravvissuti alla guerra si convinsero che i miglior affare era quello di passare alle dipendenze di Ulbricht il quale garantiva anche un forte nazionalismo revanscista contro gli americani, espressione utile per comprendere gli ebrei come elementi inquinanti della purezza tedesca benché rinnovata dal socialismo.

Il muro era in piedi rafforzato da mille lame d’acciaio e continui rifacimenti e sopraelevazioni. Quando finalmente John Fitzgerald Kennedy venne per pronunciare il suo famoso discorso in cui disse “Uch bin eine Berliner” nell’anima dei berlinesi tremanti d’emozione prevalse l’amarezza perché il mondo occidentale, dovendo scegliere se rischiare uno scontro per difendere la loro libertà, aveva scelto la loro schiavitù e la stabilizzazione, all’ombra del muro della vergogna e della Realpolitik.

 

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.