Nell’ultimo anno abbiamo visto un’accelerazione di tendenze sociali, politiche ed economiche già in atto da diverso tempo: se crescono l’incertezza e la precarietà, le soluzioni creative e innovative non mancano. In questi processi di cambiamento, il marketing gioca un ruolo centrale.

Proprio il marketing arriva in prima serata con Display: l’evento digitale verrà trasmesso il 15 dicembre alle ore 21.00. Interverranno undici speaker di primo piano per raccontare i principali trend della comunicazione, nei loro aspetti più interessanti e innovativi. L’evento – nato da un’idea di Michele Franzese, CMO dell’agenzia Scai Comunicazione e ideatore di format come Heroes meet in Maratea – diventerà un appuntamento mensile dedicato ai temi della digital transformation. Sarà possibile seguire lo show in diretta su www.displaylive.it. Tra gli ospiti ci sarà Chiara Bacilieri, esperta di psicologia del lavoro, convinta che la migliore risposta alle sfide che le aziende si trovano oggi ad affrontare sia “l’umanizzazione”. In attesa della serata ne abbiamo parlato con lei.

 Lei è responsabile di un team di esperti di psicologia del lavoro e data science all’interno di Lifeed, azienda che ha ideato e promuove un metodo innovativo di formazione aziendale: il Life Based Learning. Può raccontarci di cosa si tratta?
Si tratta di un metodo che sta rivoluzionando la formazione aziendale e che permette alle persone di trasformare gli eventi della vita e le fasi di transizione in occasioni di crescita e rafforzamento delle competenze soft. Concetti chiave del Life Based Learning sono la multi identità e la “transilienza”, cioè la capacità di trasferire competenze soft da un contesto all’altro. Per esempio, nei ruoli che ricopriamo nella nostra quotidianità (come genitori, figli, amici, …) alleniamo – spesso inconsapevolmente – delle competenze che possono essere “trasportate” anche nel contesto lavorativo. In pratica, quei ruoli che tendiamo a considerare come detrattori di tempo ed energie dalla nostra vita professionale sono in realtà delle vere e proprie “palestre” di competenze, e il primo passo per farle emergere è esserne consapevoli.

 

Quanto è sviluppato il settore HR in Italia? Qual è il suo futuro, tanto più in considerazione di come l’emergenza sanitaria ci abbia costretto a ridefinire gli spazi e i rapporti di lavoro, sempre più sovrapposti alla dimensione della vita privata? Quali sfide il settore è chiamato ad affrontare in questo contesto?
L’Italia è ancora qualche passo indietro rispetto a realtà come quella anglosassone che alla funzione HR assegnano un ruolo strategico oltre che amministrativo e organizzativo, ma l’emergenza sanitaria ha accelerato dei trend in quella direzione. Stiamo assistendo al passaggio da modelli organizzativi concentrati sulla gestione del bilanciamento vita-lavoro a modelli che vedono in queste dimensioni una sempre maggiore integrazione; dall’opposizione binaria e competitiva tra vita privata e lavorativa alla loro sinergia; dalla distinzione dei ruoli all’integrazione di dimensioni identitarie che si manifestano nella vita privata nel lavoro. In questo contesto, l’HR assume un ruolo più rilevante e strategico rispetto al passato, che sottende una crescente attenzione al singolo e alla dimensione soggettiva e implica, per esempio, l’aiutare le persone a vivere il cambiamento e a trovare nell’incertezza un’opportunità per migliorarsi.

Si parla molto di soft skill, oggetto di una rivalutazione generale nel mercato del lavoro. Può dirci cosa sono e perché vale la pena valorizzarle? Soprattutto, ritiene che siano effettivamente e concretamente riconosciute dalle aziende?
In alcuni contesti, per esempio nel settore industriale, c’è sempre stata la tendenza diffusa a considerare le soft skill come competenze di serie B rispetto alle hard skill, quando in realtà tra le due c’è una differenza qualitativa, non quantitativa né di valore. La distinzione è tra competenze tecniche e competenze umane e relazionali; il fatto che le prime siano più facilmente misurabili delle seconde non le rende superiori. Per esempio, mai come in questo periodo di remote working (che – ci tengo a sottolinearlo – a volte non ha nulla a che vedere con lo smart working) ci siamo accorti di quanto alcune competenze soft siano imprescindibili per un leader: empatia, capacità di ascolto e motivazione, capacità di riconoscere e gestire le emozioni. Spesso si sente parlare di come sia “cambiata la leadership” in questo periodo storico, ma non mi trovo d’accordo con la domanda: non penso che sia cambiato il modo di essere leader, piuttosto credo che oggi riusciamo a finalmente vedere con maggiore chiarezza chi è davvero un leader e chi non lo è.

Dalla sua esperienza professionale nel campo del marketing cosa ha portato nel settore delle risorse umane? Quali approcci, metodi e teorie del marketing potrebbero cambiare l’approccio alle risorse umane?
Ci sono due concetti di “marketing” in cui vedo interessanti connessioni con il mondo HR, connessioni ancora poco esplorate e che dal mio punto di vista possono far evolvere modelli e best practice in entrambi gli ambiti. Innanzitutto, l’idea di hard data e soft data. Come hai giustamente evidenziato, il mio background – e la mia “altra anima” professionale – è nel marketing. Mi sono sempre occupata di neuromarketing e dell’analisi dei comportamenti di acquisto delle persone da una prospettiva psicologica. E se nel marketing la psicologia è fondamentale per conoscere in profondità i clienti, come persone e non solo come consumatori, nelle organizzazioni è altrettanto fondamentale per capire ‘chi’ sono i nostri collaboratori, non solo come professionisti ma nei loro molteplici ruoli di vita. È la ragione per cui il progressivo spostamento del focus dalla dimensione “hard” alla dimensione “soft” non può limitarsi alle competenze ma deve coinvolgere tutta la people analytics: emozioni, desideri, tratti caratteriali, ruoli di vita e di cura non sono “altro da” ma sono “parte di” ciò che siamo anche come professionisti. Dobbiamo smettere di pensare per dicotomie: abbiamo sempre parlato di equilibrio “vita-lavoro” come se si trattasse di due sfere distinte. Un modo di ragionare che spinge ancora molte aziende – e molte persone – a tenere fuori dal lavoro la dimensione soggettiva ed emozionale; ad averne paura, come se intaccasse anziché accrescere, come se togliesse tempo ed energie anziché arricchirci di nuove competenze.

In secondo luogo, non esiste un manuale di istruzioni o un’unica “lesson learnt” su come gestire le relazioni con le persone con cui lavoriamo. Ognuno di noi è diverso e la crescente attenzione al singolo e alla dimensione soggettiva implica il tenere conto delle differenze individuali. Così come nel marketing la customer analytics è indispensabile per personalizzare l’esperienza dei clienti in base alle loro caratteristiche e ai loro comportamenti, la people analytics deve dare alle organizzazioni la capacità di personalizzare la comunicazione, i metodi di valutazione e la formazione stessa in base ai bisogni e alle attitudini di ogni persona. “One size doesn’t fit all” è un concetto più diffuso nel marketing che nel mondo HR, ma se ci pensiamo è alla base di una capacità fondamentale in entrambi gli ambiti: l’empatia. L’empatia implica il comprendere i pensieri, la soggettività e le emozioni dell’altro per adattare di conseguenza il nostro approccio relazionale; una competenza che le aziende valutano e richiedono sempre più alle persone, e che allo stesso modo le persone dovrebbero iniziare a ricercare nelle aziende.

 

La diversità è diventata una questione molto rilevante nel mondo contemporaneo. Se il marketing ha saputo evolversi in questa direzione, per esempio attraverso lo sviluppo di tecniche di customizzazione, come potrebbero muoversi le organizzazioni rispetto a questa dimensione?
Come accennavo prima, se nel marketing la customer analytics è essenziale per la personalizzazione, nel mondo HR lo è la people analytics, cioè l’insieme di dati – qualitativi e quantitativi – che descrivono le persone nelle organizzazioni. In questo senso, la metodologia che abbiamo messo a punto in Lifeed è basata su due elementi centrali e apparentemente incompatibili: big data e narrazione libera; narrazione che si ottiene dalle risposte delle persone a domande aperte nell’ambito di percorsi formativi che, in questo modo, diventano anche strumenti di ascolto e di voice of employee. L’obiettivo è trasformare dati complessi e destrutturati in informazioni su emozioni, comportamenti, tratti caratteriali e altre dimensioni autenticamente umane che, tradotte in indicatori misurabili, aiutano l’organizzazione a costruire piani di sviluppo che si adattano ai bisogni e alle caratteristiche soggettive di ogni individuo.

Sulla base della sua esperienza, in che direzione stanno andando il mercato e il mondo del lavoro? E con quali parole chiave potrebbe riassumere il suo approccio alle risorse umane e al marketing?
Le parole chiave con cui definirei il mio approccio alle risorse umane sono le stesse con cui descrivo il mio approccio al marketing: ascolto, personalizzazione ed empatia. Per quanto riguarda la direzione del mondo del lavoro, penso che stiamo andando sempre più verso il freelancing, per due motivi principali: il primo è che le aziende sono sempre meno propense a fare investimenti a lungo termine – una scelta rischiosa vista l’importanza strategica che alcuni collaboratori “esterni” all’organizzazione arrivano non di rado ad acquisire. Il secondo è che – come racconta Nicolò Andreula in Flow Generation – sempre più lavoratori scelgono di non legarsi in maniera stabile a un’unica realtà aziendale perché preferiscono lavorare a progetto per più clienti contemporaneamente, sia per una questione di qualità della vita sia di crescita professionale.