L'intervista
Padre Camillo Ripamonti: “80 milioni di profughi in fuga con la paura negli occhi”
Padre Camillo Ripamonti è il direttore del Centro Astalli, Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati. La missione del Centro Astalli è così sintetizzata: “Accompagnare, servire e difendere i diritti dei rifugiati”.
Una persona su 97 al mondo fugge da guerre, disastri ambientali, povertà assoluta. Alla fine del 2019, risultava essere in fuga la cifra senza precedenti di 79,5 milioni di persone. A documentarlo è il rapporto annuale dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) Global Trends, pubblicato due giorni prima della Giornata Mondiale del Rifugiato. Cosa ci dicono questi numeri impressionanti?
Ci dicono che quello in cui viviamo è un mondo travagliato, ferito da guerre, da conflitti di diverso tipo, da cambiamenti climatici che producono disastri ambientali, un mondo segnato da quelle diseguaglianze che molto spesso portano le persone a lasciare le proprie case alla ricerca di condizioni di vita migliori. Le diseguaglianze spesso alimentano le guerre e le guerre, spesso, moltiplicano le diseguaglianze. È un circolo vizioso quello a cui assistiamo.
Ma c’è consapevolezza di ciò nelle leadership mondiali?
Alla fine del 2018 c’è stata la firma del Global Compact for Migration a cui avevano aderito oltre 150 Paesi: l’Italia aveva partecipato ma non ratificato. Direi che a livello della governance mondiale c’è la consapevolezza che il fenomeno migratorio sia un fenomeno globale a cui mettere mano, ma a livello dei singoli Stati si fa fatica a declinare questa consapevolezza comune con politiche efficaci, anche perché molto spesso non si ha il coraggio, per calcoli elettorali, di andare controcorrente, di prendere quelle decisioni che dovrebbero essere assunte perché il mondo ci dice questo. Manca questa lungimiranza, questa capacità di delineare e poi realizzare i politiche efficaci nei singoli Stati. E questo porta poi ad una mancanza di solidarietà fra gli Stati, come dimostra l’Unione europea.
La crisi pandemica non rischia di aggravare una situazione già allarmante?
Certamente si aggraverà nella misura in cui la pandemia ha messo in evidenza quelle che sono le fragilità del nostro Stato sociale: negli ultimi trent’anni non si è investito adeguatamente sul Welfare, e cioè sulla sanità pubblica, sull’inclusione sociale delle fasce più fragili della popolazione, sull’istruzione. Questa fragilità è stata resa più evidente e drammatica dall’emergenza sanitaria, e le ricadute su un sistema così fragile, sottoposto allo stress della pandemia, saranno, per i prossimi mesi e forse anni, molto gravi, non solo sulle fasce più fragili della popolazione ma sull’intero sistema-Paese. E le ricadute più pesanti riguarderanno i migranti e i rifugiati che sono i più indifesi tra gli indifesi, i più vulnerabili nella fascia più fragile della popolazione. E ciò è dipeso, se non in toto di certo in gran parte, dalle politiche di precarizzazione attuate negli ultimi anni sui migranti e i rifugiati.
In questo scenario, quale ruolo ha svolto e svolgerà quell’universo solidale di cui il Centro Astalli è uno dei pilastri?
Il Centro Astalli insieme a tutto il mondo associativo, in questa fase specifica della pandemia, cerca di rispondere ai bisogni più urgenti delle persone: nella fase del lockdown, un impegno importante, prioritario, era dare da mangiare a queste persone. In questa fase più avanzata, si cerca di aiutare le persone a ritrovare il bandolo della matassa delle loro vite: per chi ha perso il lavoro, si cerca di accompagnarlo alla ricerca di un nuovo lavoro, per chi aveva un lavoro irregolare si cerca di aiutarlo nel processo di regolarizzazione. In generale, si cerca di avere uno sguardo lungimirante sul futuro di queste persone.
Lei ha in precedenza fatto riferimento ai guasti prodotti dalle politiche di precarizzazione. Quanto a guasti, non sembrano essere da meno i decreti sicurezza. Il governo Conte II ha promesso di intervenire. Sono promesse da marinaio?
Questo non possiamo dirlo finché non vedremo gli effetti reali di queste promesse. Il presidente del Consiglio ha detto che nei prossimi giorni il Governo metterà mano a questi decreti. Staremo a vedere. Ciò che auspichiamo è che si vada verso una riduzione di questa precarizzazione della vita delle persone, agendo sull’aspetto dell’inclusione sociale. Un passo concreto in questa direzione, sarebbe accorciare i tempi di attesa del riconoscimento dello status di rifugiato e richiedente asilo. Attualmente, questi tempi sono troppo lunghi. Le loro vite sono sospese. Chi ha responsabilità di governo e istituzionali deve tenerne conto e agire di conseguenza.
Resta una valutazione severa di quei decreti
In tutti i servizi si sono sentiti gli effetti dei decreti sicurezza (promulgati nel 2019 dal governo Conte I quando Matteo Salvini era ministro dell’Interno, ndr), non tanto sul numero delle persone quanto sulle loro vita che è diventata sempre più precaria. La precarietà, la povertà, l’invisibilità a cui abbiamo costretto i migranti non sono state causate dalla pandemia e nelle settimane di “Io resto a casa” è diventato ancora più evidente che molte persone questa casa non ce l’hanno e tra questi molti migranti che abbiamo reso nel tempo più precari. Abbiamo reso l’accoglienza uno strumento a tempo e non uno strumento che possa trasformarsi in un progetto di vita. Stiamo assistendo ad una dis-integrazione nel senso di una cattiva e, in molti casi, di una mancata integrazione. Questo sta portando ad una distruzione del tessuto sociale che invece va creato per costruire una comunità di vita. Anche il 2019 è stato un anno in cui abbiamo resistito a questa dis-integrazione. Ma ormai è evidente che resistere non basta più, occorre rigenerare, avere molta fantasia sociale.
Quando si parla di realtà drammatiche, il discorso non può non ricadere sulla Libia.
Non scopriamo oggi l’inferno dei campi di accoglienza, dei trattamenti disumani che i rifugiati erano costretti a subire prima di imbarcarsi. A testimoniarlo al Centro Astalli sono stati centinaia di potenziali rifugiati e richiedenti asilo. Una situazione già drammatica, è ulteriormente precipitata con la guerra che da anni sta devastando la Libia. La guerra ha reso ancora più terribili le condizioni di quanti sono ancora rinchiusi in questi centri e per le migliaia di disperati che finiscono nelle mani dei trafficanti di esseri umani. Ogni giorno incontriamo uomini e donne che portano negli occhi la paura per ciò che hanno vissuto in Libia. Torture e violenze ritornano nei racconti dei migranti che accogliamo e sempre più spesso assistiamo persone segnate nel corpo da percosse e abusi. Per ciascuno dei migranti che incontriamo e per i tanti che rimangono intrappolati nell’inferno libico vogliamo ribadire la grave responsabilità che l’Italia ha nel rimanere ferma e nel rinnovare tacitamente un accordo con la Libia, inaccettabile già nel 2017..Qualcosa di concreto è possibile fare: ad esempio, l’evacuazione dei centri di detenzione, la realizzazione di corridoi legali, umanitari che evitino che la Libia resti un passaggio obbligato per i tanti che fuggono da altri Paesi africani o asiatici. Una cosa mi sento di dire con forza: accogliere si può, nonostante il Coronavirus.
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