Alberto Pagani, docente e advisor nel settore della sicurezza, è stato parlamentare del Pd dal 2013 al 2022 terminando il mandato da capogruppo Dem in commissione Difesa e delegato nell’Assemblea Parlamentare della NATO.
In che scenario siamo? C’è la guerra in Europa e la guerra nel Mediterraneo. L’Italia è in mezzo…
«Assolutamente come ha detto lei: siamo in mezzo. Siamo al centro tra due conflitti cinetici legati tra di loro e avviluppati in altre forme di guerra ibrida e asimmetrica: guerra economica, guerra terroristica, guerra dell’informazione… »
E oggi le stiamo vivendo tutte insieme.
«Tutte insieme, oltre alla guerra guerreggiata».
L’Italia ha una storia diplomatica che la spinge sempre a coltivare buone relazioni e fare da paciere, ma stavolta mi sembra non riuscirci.
«Per riuscirci bisogna provarci, e per provarci bisogna avere le condizioni. E oggi queste condizioni politiche oggettivamente non ci sono».
Cosa vuole dire? Non abbiamo una condizione di forza internazionale?
«Per quale motivo dovrebbero prenderci come interlocutore negoziale? Non vedo la ragione per cui noi dovremmo essere diversi da altri Paesi, avere una condizione particolare di accesso ai canali di dialogo».

Tajani però è stato un’ora al telefono con il ministro degli Esteri iraniano.
«L’intenzione c’è ed è buona, non voglio criticare l’intenzione, ma non mi sembra abbia sortito qualche effetto. E vale per tutti i Paesi europei, non siamo – presi singolarmente – nella posizione di costringere qualcuno al tavolo delle trattative».
La sinistra deve fare i conti con la realtà, con la real politik. Il mondo è cambiato, servono politiche di difesa e sicurezza internazionale al passo con i tempi. C’è un ritardo culturale?
«Sì, avendo avuto grazie all’Unione Europea e grazie alla Nato un lungo periodo di pace, ci siamo abituati all’idea che la guerra non ci sarà mai. È un’illusione, sì, ma quella della sinistra coincide con la speranza – anch’essa illusoria – del popolo italiano che ritiene di essere sempre al riparo da rischi. Non è così, purtroppo: c’è un contesto geopolitico nuovo che impone all’Europa di avere maggiori capacità autonome di autodifesa».
Sotto l’ombrello Nato, per dirla con Berlinguer, siamo protetti?
«Sì ma gli americani hanno spostato il baricentro del loro interesse dal Mediterraneo al Sud-Est Asiatico. Se l’Asia diventa il cuore dell’interesse geopolitico Usa, è evidente che c’è una richiesta agli alleati di fare qualcosa in più per garantire la sicurezza delle proprie aree. E proprio sul Mediterraneo si assommano invece gli interessi ostili dell’Iran e della Russia. Neanche durante la guerra fredda c’era mai stata tutta questa presenza russa nel Mediterraneo. Perfino in Libia, dove forse avremmo dovuto presidiare noi quei porti… »
Ha citato Iran e Russia, due attori che interagiscono tra loro, si saldano tra loro.
«Se vogliamo metterli tutti e tre ci mettiamo anche Pechino, perché senza il polmone finanziario cinese, russi e iraniani non arriverebbero a mangiare il panettone. È solo grazie ai mercati finanziari cinesi, seconda economia del pianeta, che l’effetto delle sanzioni su Russia e Iran si rivela meno efficace del previsto».
Si parla tanto di modello di difesa europeo. Talvolta sembra più per calciare la palla in tribuna che per investire davvero nella Difesa…
«Il modello di Difesa europeo può essere utilizzato da persone che hanno visioni e competenze diverse, ognuno intende con questo titolo qualcosa di diverso. C’è chi pensa che può essere un modo per scaricare le responsabilità o per tagliare i costi. Sbagliato. Quando si investe, in termini di effettivi e di denaro, ne servono di più e non di meno. Fare un esercito europeo è un costo, un investimento. Non ho mai visto nessuno aumentare le proprie capacità facendo meno fatica».
Comunque occorre un esercito europeo.
«Dobbiamo avere la possibilità di difendere l’Europa in maniera più efficace di come possono fare i singoli stati. Quando i burattini degli iraniani che stanno nello Yemen, gli Houthi, hanno cominciato a eseguire gli ordini dei loro mandanti, aggredendo il traffico commerciale che passa per il Mar Rosso verso l’Europa (incluse le navi italiane), a reagire sono stati immediatamente gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Due Paesi non direttamente penalizzati da quegli attacchi, che pure non riguardavano i traffici atlantici. Se l’Ue avesse avuto una capacità di reazione immediata, anziché metterci quindici giorni per approvare la missione Aspide, sarebbe stato meglio».
Almeno c’è stata una decisione…
«La missione europea, lodevolissima, si può mettere in piedi solo con tempi lunghi. Abbiamo bisogno di una forza di intervento rapido, ma non per fare le parate. E allora serve una indicazione politica chiara. Serve una voce unica per gli Esteri dell’Ue, poi si passa alla Difesa. Faccio un esempio: se avessimo avuto una forza di intervento rapido di terra da impiegare in Libia, quando il governo di Al Serraj chiedeva aiuto – e infatti sono andati ad aiutarlo i turchi – l’Ue come avrebbe impiegato quella forza, dato che la Francia sosteneva il generale Haftar, avversario di Al Serraj? Dunque bene formare una forza di pronto intervento europea, ma se a monte non c’è una politica estera comune non ce ne faremo niente».

Bisogna stanziare il 2% del Pil per la difesa?
«È un impegno già assunto con gli alleati della Nato. Lo avevamo assunto con il primo che lo aveva chiesto in maniera ferma, Barack Obama. E tutti i Paesi europei si stanno avvicinando al 2% del Pil per la difesa, non ci possiamo sottrarre».
Tra i Presidenti del Consiglio che hanno confermato questo impegno c’è anche Giuseppe Conte…
«Sì, anche Conte lo ha confermato. E come lui tutti gli altri premier. Diffido di chi dice una cosa quando sta al governo e il suo contrario quando sta all’opposizione».
La sinistra ha qualche imbarazzo, quando si tratta di difendere Israele?
«Israele è un faro di democrazia in Medio Oriente, anche se Netanyahu sta sbagliando molto. Tutti i democratici dovrebbero stare con Israele e direi che la sinistra è a sostegno della sicurezza dello Stato di Israele, dopodiché secondo me il loro governo non sta facendo le scelte più opportune».
Ha qualche timore per la missione Unifil, per i nostri 1200 militari tra Libano e Israele?
«Per forza. Per quanto l’Italia abbia sempre mantenuto un dialogo con tutte le parti, e in Libano fin dai tempi del generale Angioni, con le nostre prime missioni degli anni Ottanta, è evidente che se la situazione si complica, si complica per tutti».
Oggi la guerra ibrida è guerra di informazione. Le fake news sono armi?
«La disinformazione è un’arma usata da Stati, e poi replicate da fessi che dicono bugie in rete. Sospinti da un innesco, replicano fesserie in maniera spintanea. Se non vinciamo quella guerra, è difficile vincerle poi sul campo».

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.