La “falange armata” sta piantata in mezzo al salone Garibaldi, formazione a capannello, piedi paralleli, mani dietro la schiena, parlottare fitto. I senatori Ferrara, Lanutti, Licheri, passa anche Perilli che però non è tra gli irriducibili. E Toninelli, che avrebbe già deciso da un pezzo: “Fuori, ma che ci stiamo a fare in questo governo”. Il linguaggio del corpo non tradisce: sono fieri, petto in fuori, dentro il sacro fuoco di chi sa di essere al “centro” della scena politica. Il colpaccio di cui si andrebbero a fregiare è quello di far cadere il governo Draghi, “sì, finalmente, non ci saremmo mai dovuti entrare”. Passa il senatore Pierferdinando Casini, direzione buvette perché è l’ora della merenda e punta alla galletta dietetica insaporita con un po’ di cacao. Il gruppetto della falange armata lo saluta, quasi lo chiama. Lui tira dritto, “eccellentissimi – dice alzando la mano con fare profetico – non abbiate paura…”. Di far cadere il governo? Ironizza Casini: “Spiego loro ogni volta che io, come loro mi dissero, sono un sarcofago, la sera mi chiudono dentro e quindi non mi devono chiamare o coinvolgere in qualcosa…”.

Sono le 17 e 30 della vigilia del D day del governo Draghi “appeso” – si fa per dire – alle mire strategiche del Movimento 5 Stelle. Non potendo essere un trojan che ascolta e legge telefonate e messaggi dei parlamentari 5 Stelle, l’unico vero luogo dove stare per provare a capire come evolve la crisi d’identità del Movimento 5 Stelle è palazzo Madama, la sede del Senato, le scale e i corridoi che portano ai gruppi parlamentari e il salone Garibaldi, testimone silente di ormai cinque anni di crisi politiche, leadership issate allo zenit e poi precipitate al nadir dell’orizzonte politico. Alle 18 e 30 è attesa l’informativa sulla siccità del ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli, fedelissimo di Conte, capodelegazione 5 Stelle nel governo Draghi. “Alle 19.30 avremo un Consiglio nazionale e alle 20 e 30 incontreremo i nostri gruppi. Allora sarà decisa la linea per il voto di domani”. Cioè oggi, giovedì quando nel primo pomeriggio sarà votata la fiducia al decreto Aiuti (che scade sabato) con cui il governo stanzia 23 miliardi per famiglie e imprese contro il caro energie e l’inflazione. Un testo che contiene anche una modifica al Reddito di cittadinanza (potrà essere rifiutata una sola offerta di lavoro), non sblocca il Superbonus edilizio al 110% e soprattutto prevede la realizzazione a Roma di un termovalorizzatore per uscire una volta per tutte dalla crisi della spazzatura che umilia da anni la città più bella del mondo.

Per tutti questi motivi i 5 Stelle non hanno votato il provvedimento in Consiglio dei ministri. Non lo hanno votato alla Camera. E minacciano di non votarlo al Senato dove però il non voto corrisponde ad un voto contrario. Che automaticamente costringe stasera il premier Draghi a salire al Quirinale e rimettere il mandato al Capo dello Stato. Ebbene sì, di questo stiamo parlando: di un partito politico che è stato maggioranza relativa in Parlamento, caduto un po’ in disgrazia, socio di maggioranza in tutti i tre diversi governi di questa legislatura che sta decidendo di provocare una crisi di governo dieci mesi prima della scadenza naturale mentre il Paese è nel mezzo della tempesta perfetta: guerra, epidemia, inflazione, speculazione. Del partito di maggioranza relativa che ha deciso di togliere le chiavi di palazzo Chigi all’unica garanzia che ha in questo momento l’Italia (e a ben vedere anche l’Europa), cioè Mario Draghi. Qualcuno ci vede un po’ anche la rivalsa di Conte che 17 mesi fa fu sloggiato a sua volta da palazzo Chigi proprio mentre stava mettendo le mani sui circa 200 miliardi di prestiti e finanziamenti del Pnrr europeo. E tutto perchè “il termovalorizzatore non è nei nostri programmi”. Che detto davanti ad una città sommersa dai rifiuti dove per cinque anni una sindaca 5 Stelle non ha fatto nulla, ha il sapore amaro e beffardo di una solenne bestemmia.

Ma torniamo nel luogo del delitto, palazzo Madama, sede del Senato. Alle 17 e 30 si notano i movimenti. E si registrano le intenzioni. C’è una ventina di senatori che non vogliono più votare la fiducia, nè oggi nè mai. Il problema non è la contingenza del termovalorizzatore: la “falange armata”, una ventina di senatori che Casini invita a “non avere paura” vuole uscire a prescindere. La capogruppo Castellone passa lì accanto e ha una faccia terrea: lei, è abbastanza chiaro, non vorrebbe farlo. Sa che questa decisione sarà il de profundis per il Movimento che se oggi non vota si chiama ora e per sempre da successive occasioni di responsabilità di governo. Il dibattito sulla siccità del ministro Patuanelli ha qualcosa di lunare: parla come se dovesse governare per altri undici mesi, fino al 2023, scadenza naturale della legislatura. Nel salone Garibaldi rimbalzano voci circa un colloquio avvenuto nel pomeriggio tra Conte e Draghi in cui l’ex premier avrebbe spiegato all’attuale premier che i 5 Stelle “non possono votare il dl Aiuti e quindi oggi non voteranno ma questo non significa sfiduciare il governo. Affatto. Significa non essere d’accordo su questa specifica parte del provvedimento in votazione che del resto non è mai stato in agenda”.

Quindi, avrebbe detto Conte a Draghi, “noi oggi non votiamo, il governo però avrà la fiducia e quindi se anche sali al Quirinale, la grammatica costituzionale prevede che tu torni alle Camere dove noi 5 Stelle ti voteremo”. Tra le tante variabili di crisi di governo vissute dalla nostra tormentata repubblica, questa sfumatura sembra inedita. Un po’ come quei mariti beccati a letto con l’amante e alla moglie spiegano affettuosi “tranquilla cara, non è quello che sembra”. Con i gruppi ieri sera sono state discusse anche altre variabili. I senatori potrebbero ad esempio votare secondo coscienza, in pratica un voto sul termovalorizzatore di Roma e non sulla fiducia al governo Draghi. La colpa, alla fine, sarebbe del regolamento non abbastanza flessibile. Ma c’è anche, una minoranza, vorrebbe votare contro e non pensarci più. Basta, uscire dalla maggioranza Draghi e tentare un recupero del consenso grazie a qualche mese di campagna elettorale finalmente a mani libere. È chiaro però che non sarebbe più Conte il leader del Movimento all’opposizione. E l’ex premier cerca di evitare il suicidio politico anche se la situazione gli è comunque scappata di mano. Draghi, d’accordo con il Quirinale, gli ha concesso già molto: ha fatto persino una conferenza stampa accettando di lasciar intendere che l’accelerazione sull’agenda sociale del governo è una “risposta” alla letterina di Conte.

Premier ed ex premier ne hanno riparlato ieri nella telefonata in cerca entrambi, pare, di spiragli con cui andare avanti nell’azione di governo. Che ha tanto da fare. A cominciare da un decreto che entro fine luglio stanzierà altre risorse per cittadini e imprese schiacciate dalla crisi. Draghi è stato chiaro: riesco a gestire le fibrillazioni finché riesco a governare. Ma “con i continui ultimatum non si può governare”. Non solo: non esiste un Draghi bis senza i 5 Stelle. Quindi, come hanno ripetuto ieri anche Forza Italia, Lega, Pd “se i 5 Stelle non votano la fiducia resta solo il voto anticipato”. Italia viva accarezza l’idea di un governo tecnico senza i 5 Stelle. Che alla fine potrebbe non dispiacere a Draghi. Ma c’è la variabile “tranquilla cara, non è quello che sembra”, cioè non ti voto oggi ma ti voto domani perchè nel frattempo “il governo Draghi ha i numeri e non è sfiduciato”. Così stiamo messi: il caos dell’incoscienza. Anche la riunione notturna non ha chiarito le idee. Si tratterà oggi fino all’ultimo. Stasera potrebbe anche non succedere nulla. Se Draghi avrà la maggioranza e quindi la fiducia (165-168 voti senza i 5 stelle. Magic number 161) non esiste obbligo per il premier di salire al Quirinale. Meno che mai che si apra una “crisi” con nuovo invio alle Camere. A meno che non sia Super Mario a dire basta. Ne avrebbe motivo. Ma non lo farà.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.