Lettera ai politici
Perché questa marea di ragazze vi dovrebbe votare? E’ finita la storia dove il verbo che conta è solo maschile
Perché questa “marea” di ragazze/i dovrebbero votarvi, quando voi neanche li vedete, quando voi siete in televisione a ogni ora e ai loro affollatissimi cortei non vengono dedicati neppure i titoli di coda dei Tg, quando a nessun giornalista viene in mente di fare un’inchiesta sui bisogni, desideri, sogni di una generazione che ha molto da insegnarvi sulla crisi del modello di civiltà che abbiamo ereditato, patriarcale capitalista, razzista e con insorgenze nostalgiche di regimi autoritari?
Perché dovrebbero provare interesse per istituzioni che non hanno dato segno di alcuna capacità di rinnovamento, benché sollecitate da movimenti antiautoritari, libertari, solidaristici, che nel nostro Paese non sono mai mancati e che le interrogavano nel loro conservatorismo, nella loro autoreferenzialità? Perché dovrebbero interessarsi alle vostre stanche e ripetute “confessioni” di errori, manchevolezze, promesse di rinnovamento, quando i governi che abbiamo davanti da anni ci stanno portando al disastro, dalla povertà crescente, alla violenza contro le donne, al potenziamento dell’arsenale di guerra, all’ostilità verso i migranti, alle nostalgie fascistoidi che minacciano diritti e libertà acquisiti?
Perché, come femministe, dovremmo dare credito a donne che emergono solo perché integrate nella vostra stessa visione del mondo, pronte a sostenere con la loro forza la vostra crescente debolezza? Non è la Storia che è finita. E’ finita la “vostra” storia, quella che ha creduto di poter governare il mondo escludendo metà della specie umana, di poter far passare come “neutra” e “universale” la parola di un solo genere, quello maschile. Fatevene una ragione, fate finalmente buon uso di quella “ratio”, di quel “logos”, che con tanta arroganza avete innalzato al di sopra di tutte le altre facoltà umane, identificate con un femminile – corpo, natura, animalità.
Fin dalla sua comparsa, all’inizio degli anni ‘70 era chiaro che nasceva col femminismo la messa in discussione più radicale della politica, a partire dalle sue origini: la separazione tra il corpo e la polis, tra un sesso vincente e l’esclusione dell’altro, considerato “vita inferiore”. Veniva allo scoperto la consapevolezza del fondamento sessista, patriarcale di una comunità storica di uomini che si era posta come l’umano nella sua compiutezza. Con una pratica che riscopriva la politicità di esperienze essenziali dell’umano, come la sessualità, la maternità e tutte le vicende che hanno il corpo come parte in causa, relegate nell’immobilità delle leggi naturali, era evidente che la politica, per essere ancora credibile, avrebbe dovuto ridefinirsi. Così non è stato. Benché il movimento delle donne sia l’unico sopravvissuto alle fine del decennio degli anni ‘70, quante volte abbiamo sentito dire o letto da opinionisti, politici e intellettuali noti, che era “morto” o “silenzioso”, salvo richiamarlo sulle piazze quando faceva comodo ai loro interessi politici?
Dirsi femministe ed esigere che nei documenti dei partiti o gruppi con cui c’è maggiore condivisione di obiettivi – come l’ambientalismo, l’antirazzismo, l’anticapitalismo, ecc. -, si nomini la cultura patriarcale, la violenza sessuale e di genere, quale fondamento di tutti gli orrori che la storia ci ha consegnato, è un passaggio indispensabile per arrivare a quella forza collettiva o “unità dei molteplici” (Roberto Ciccarelli), che può effettivamente cambiare le sorti del mondo. I salti della coscienza storica, le sue stagioni “rivoluzionarie” non si esauriscono in una generazione. Tutti sappiamo cosa vuol dire essere maschi o femmine, ma è come se ognuna/o singolarmente dovesse riscoprirlo, partendo da una domanda che nasce dentro di sé, quando ci si rende conto che i ruoli e le identità di genere appartengono alla storia , alla cultura, e che come tali sono modificabili.
Il femminismo è una consapevolezza nuova che si ha di sé e del mondo, un modo diverso di pensare e agire nella vita privata e pubblica, un processo di liberazione da pregiudizi, schemi mentali, costruzioni immaginarie che abbiamo inconsapevolmente ereditato dalla cultura dominante. Ma, soprattutto, è l’ “imprevisto” che ha portato alla nascita di una soggettività femminile, legittimata a “vivere per sé”, a riconoscersi come individualità, persona, e non solo come ruolo funzionale al benessere di altri. Nonostante sia stato osteggiato, lasciato nell’invisibilità anche quando ha invaso le piazze e le strade di grandi città con manifestazioni impossibili da ignorare per numeri di presenze e creatività, come è possibile non riconoscere che ha mantenuto la sua forza, la sua capacità di produrre pensiero, iniziativa, conflitti, di alimentare passioni durature che ricompaiono di generazione in generazione?
Il rapporto tra movimenti e istituzioni è peggiorato, e in ogni ricorrenza elettorale è l’astensionismo a darne prova evidente. Quella “scandalosa inversione” tra vita e politica, che era già l’obiettivo da cui muoveva la pratica del movimento non autoritario nella scuola, ripreso con maggiore radicalità dal femminismo col “partire da sé”, ha visto in realtà aprirsi uno scarto sempre maggiore tra una politica persa dietro ai “personalismi” e ciò che avviene nella quotidianità, nei bisogni come nei desideri delle persone. E il rischio oggi è sotto gli occhi di tutti: una materia enorme di esperienza, segnata da un disagio crescente dovuto all’impoverimento di larga parte della popolazione, alla precarietà crescente soprattutto nelle generazioni più giovani, al solitudine conseguente all’idea dell’individuo come “capitale umano”, diventa il terreno più fertile per un ritorno ai valori tradizionali di “Dio, patria e famiglia”, retaggio tradizionale dei fondamentalismi delle destre. Se ho scelto la forma della lettera, è perché ancora conto sulla capacità del femminismo di scuotere le coscienze, di portare sulle piazze la sua rabbia ma anche il suo coraggio, la sua creatività, la sua forza aggregativa di tutto ciò che oggi si muove nella prospettiva di un “altro mondo possibile”. Come scrivevamo nella rivista “L’erba voglio”, “la rivoluzione, come il desiderio, è inevitabile e imprevenibile”.
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