È la mafia a guidare la mano di chi scrive le sentenze e le ordinanze che mettono in discussione l’ergastolo ostativo e la sua legittimità costituzionale? Ci sono quelli, come il consigliere Nino Di Matteo, che lanciano l’allarme usando parole piuttosto esplicite. Altri, come il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, usano toni più soft, ma il concetto è lo stesso. Il timore è che, con le recenti sentenze e ordinanze della Corte Europea dei diritti dell’uomo, della Cassazione e della Corte costituzionale sull’ergastolo ostativo, si stia per realizzare il programma di Totò Riina. Cioè a dire: se non possiamo più riempire le carceri di tanti piccoli Brusca con leggi speciali, colloqui investigativi e tante (vere, queste sì) trattative tra lo Stato e ogni singolo mafioso, e poi l’erogazione della pena di morte goccia a goccia a coloro che non si piegano, che cosa ci stiamo a fare? Vuol dire che Cosa Nostra ha vinto.

Ma la domanda è: la piena applicazione degli articoli 3 e 27 della Costituzione è un auspicio di Totò Riina o invece di coloro come il presidente emerito della Consulta Valerio Onida il quale ritiene che sia proprio il concetto stesso di carcere a vita a essere contrario ai principi costituzionali? Il procuratore Scarpinato teme che, se quella della collaborazione non fosse più la sola via per aver diritto a un percorso carcerario “normale”, anche da ergastolano, cioè secondo i principi posti dalle due importanti riforme del 1975 e del 1986 (cosiddetta Legge Gozzini), il “pentimento” non sarebbe più conveniente. Il che può anche essere vero. I mercenari come Brusca, ma anche come Scarantino, che fu torturato in carcere fino a che non divenne il falso pentito della strage di via D’Amelio, non godrebbero più del privilegio di poter mettere in vendita le proprie “verità”. Sarebbero costretti, come tutti gli altri detenuti, a sottoporsi a un progetto radicale e quotidiano di cambiamento, per poter vedere la famosa luce in fondo al tunnel.

È proprio questo il punto che tanti magistrati “antimafia” come Di Matteo, come Scarpinato, o ex come Caselli, sembrano non voler capire. O meglio, essendo quelli citati tre teste brillanti, non voler ammettere. Prima di tutto perché continuano a usare espressioni da ultimi dei populisti manettari come “soltanto” venticinque anni, “soltanto” ventuno o ventisei anni. Stiamo parlando di un quarto di secolo, per molti un terzo della propria vita. Dentro una prigione sono giorni e giorni e giorni che non scivolano via, come può capitare a noi donne e uomini liberi. In cattività ti devi guadagnare tutto. E il tempo non passa mai. E poi bisogna anche sapere, ma lo sanno, lo sanno, che il percorso individuale di ogni detenuto è analizzato al microscopio, è studiato e valutato da équipe di assistenti sociali, psicologi e soprattutto giudici di sorveglianza che stendono relazioni su relazioni, scartoffie su scartoffie, prima di dare il “la” al permesso premio e via via agli altri benefici previsti dalla legge. E difficilmente, nell’arco del tempo, si arriva a ottanta permessi-premio come quelli di cui ha goduto negli scorsi anni Giovanni Brusca.

La Corte Costituzionale (su sollecitazione di una pronuncia della Cassazione, e prima ancora della Cedu) che nel mese di aprile ha concesso al Parlamento un anno di tempo per riformare le norme speciali che da quasi trent’anni hanno decretato la morte sociale per chi non aderisce alle private “trattative” con lo Stato, ha articolato ragionamenti chiari e semplici, accessibili a chiunque voglia ascoltare. Per esempio: nessuno può garantire che il collaboratore di giustizia sia sincero e voglia davvero cambiare la sua vita, una volta uscito dal carcere, così come non è scontato il fatto che chi non voglia o non possa vestire i panni del “pentito” non abbia invece già cambiato la propria mentalità e i progetti per il futuro. Eppure il primo, supponiamo un Giovanni Brusca, a un certo punto sa che potrà ricominciare. L’altro sta in un buco nero senza via d’uscita. Ecco che cosa andrà cambiato, la disparità di diritti. Il procuratore Scarpinato non vuol sentire ragioni: o ti penti o niente. Le motivazioni per cui non tutti accettano il percorso mercenario del “mi arrestano-tradisco-tratto-divento il cocco del pm-ci guadagno”, vengono definite “giustificazioni”, e questo è cosa tremenda. Cioè: ogni cittadino, colpevole o non colpevole, non appena qualcuno gli mette le manette ai polsi e gli dice che è un mafioso, dovrebbe confessare, sbattere in galera un po’ di amici e nemici e diventare l’uomo ombra del pubblico ministero, quello che gli fa fare carriera e soddisfa ogni suo desiderio? E se non si adegua, si deve “giustificare”?

Si deve giustificare se non collabora perché teme le ritorsioni degli altri mafiosi nei confronti della sua famiglia? Ma come si permette, non si fida dello Stato? Come se l’uccisione del piccolo Di Matteo non fosse proprio l’esempio più lampante del contrario. Ti ripugna essere o essere considerato un “infame”? Ah, ma allora stai sdoganando la “cultura dell’omertà”. Preferisci avviare un tuo percorso individuale, magari lento, ma proprio per questo più sincero rispetto alle repentine capriole dei Grandi Pentiti che non reggono neanche qualche settimana di prigione e cominciano subito a trattare? Allora sei uno che privilegia l’intenzione rispetto all’assunzione di responsabilità. Manca una quarta ipotesi, nel ragionamento del procuratore Scarpinato, e cioè il caso di colui che non ha niente da aggiungere a quanto raccontato da altri. O magari non ha niente da dire perché è innocente. Càpita, sa?

È passato (volutamente) inosservato – e noi continueremo a citarlo, proprio noi che lo abbiamo tante volte criticato – l’intervento del procuratore Henry John Woodcock, sul Corriere del Mezzogiorno del 28 maggio scorso. Il magistrato, dopo aver definito le leggi speciali come un “sistema mirante all’annientamento di un presunto ‘nemico’”, e dopo aver denunciato come finalità tipiche della tortura quelle che portano alla finta scelta di collaborare con la confessione e la delazione, spiega quale secondo lui dovrebbe essere la strada da percorrere da parte del legislatore del rinvio. Il trascorrere del tempo, dovrebbe essere il primo elemento da valutare per capire se nel detenuto c’è stato un vero cambiamento. Nel tempo le persone cambiano, nessuno è quello di venticinque anni prima.

Naturalmente spetterà poi al giudice di sorveglianza (una categoria di magistrati spesso trattata come serie B dalle élite degli “antimafia”) verificare che “il passare del tempo si accompagni a un conclamato percorso di ravvedimento e di autentica dissociazione dall’originario contesto criminale, emblematico dunque dell’autentica volontà del detenuto di inserirsi nella società…”. Il che può valere anche per Brusca, ma l’importante è che lo si valuti nel corso degli anni e poi alla fine, non al principio. Comunque una bella lezioncina, cui il dottor Woodcock associa la richiesta al governo di spendere un po’ dei soldini del Recovery Fund in qualche progetto per le carceri. Come non essere d’accordo? Chissà se la ministra Cartabia si assocerà.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.