Quanti tabù ci sono ancora in materia di carcere? Tanti, basti pensare che anche in un ambiente illuminato e intellettuale come quello delle università c’è ancora chi storce il naso al solo pensiero. «Insegni in carcere? Ma chi te lo fa fare». Se l’è sentito dire anche il professor Giacomo Di Gennaro, docente di Sociologia all’università Federico II di Napoli e componente del Gruppo Terza Missione del Coordinamento nazionale dei poli penitenziari universitari.

«Creare più condizioni nelle carceri affinché sempre più detenuti decidano di iscriversi e studiare è per noi la nuova sfida – spiega – È necessario che altre istituzioni e altre università si facciano carico di questa esperienza che non può essere imposta ma è qui che si gioca la differenza tra chi condivide un percorso, un significato, relativamente alla funzione della pena e all’esperienza di studio e chi non lo condivide. Anche fra di noi – dice a proposito del mondo accademico – ci sono persone che vedono quest’attività con un occhio non favorevole. Il problema è culturale, questo non ce lo dobbiamo nascondere così come non bisogna far finta che il mondo universitario sia sempre accogliente, aperto, solidale. Ma, lo ripeto, questa è la nuova sfida».

Un lavoro che richiede impegni e sforzi organizzativi per superare ostacoli strutturali e culturali. C’è, infatti, da superare la diffidenza di molti e c’è il problema dell’edilizia carceraria e quindi degli spazi, quelli dedicati allo studio mancano o sono troppo limitati. «Eppure portare lo studio nelle carceri altro che deterrenza, è un fattore che qualifica molto più di tante esperienze frantumate, che pure bisogna fare ma spesso non hanno la stessa incidenza sulla persona», afferma Di Gennaro. «Io ne sono convinto – aggiunge – ma vedo che tra i responsabili degli istituti penitenziari c’è chi condivide e c’è chi non ci crede e parte da premesse molto più negative».

Attualmente sono 75 su 190, in Italia, gli istituti penitenziari dove sono attivi i poli penitenziari universitari e a livello nazionale si registra il più alto numeri di studenti iscritti a fronte, però, del più basso numero di laureati. Fra i detenuti della Campania si contano 106 iscritti ai corsi universitari attivati grazie al polo universitario penitenziario. Negli ultimi tre anni, da quando l’università di Napoli è entrata in carcere, gli iscritti sono aumentati da 77 a 106. Ci sono fra gli studenti anche detenuti reclusi al 41 bis, il famigerato carcere duro. Ci sono anche 390 detenuti analfabeti, dato che spinge l’università a valutare una sinergia con il provveditorato degli studi per estendere ancor di più il diritto allo studio all’interno delle celle.

«Se di tutto ciò avessimo parlato quattro o cinque anni fa nessuno ci avrebbe creduto. Di questo – sottolinea Di Gennaro – bisogna dare atto a Gaetano Manfredi, ex rettore e oggi ministro, che a mo’ di spin off lanciò questa esperienza». «Ora – aggiunge – occorre sensibilizzare altri direttori di carceri e motivare tutti gli organismi istituzionali che convergono nel mondo penitenziario a cominciare dal Ministero della Giustizia che deve accelerare i processi di informatizzazione degli istituti penitenziari, Dap e garanti perché non tutti hanno la stessa efficacia operativa che ritroviamo nel garante campano Ciambriello e in qualcun altro come lui».

I tabù, dunque, sono ancora tanti ma la sfida si pone un obiettivo importante. «È il modo più coerente – spiega il professor Di Gennaro – per ridare dignità alla funzione della pena. I detenuti che seguono il percorso universitario stanno portando avanti un’esperienza positiva anche ai fini della ridefinizione dell’identità soggettiva, acquisendo pian piano la consapevolezza della funzione e del ruolo che lo studio sta avendo per loro, come strumento che aiuta a ridefinire l’identità soggettiva e aiuta a esibire una sorta di riconoscimento che probabilmente non si è mai avuto se non nei termini perversi che possono essere le affiliazioni a gruppi criminali oppure a qualche gang. Qui invece si tratta di avere un riconoscimento diverso. Entrare nella prospettiva che un giorno saranno chiamati dottori è una cosa di grande rilevanza, rimarca l’impegno profuso per cambiare vita».

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).