Ieri mattina qui al Riformista abbiamo fatto un gioco. Ciascuno di noi ha scritto su un foglietto di carta quelli che prevedeva sarebbero stati i risultati della votazione sulla Rousseau. Qualcuno ha scritto 60 a 40, qualcuno 61 a 39, qualcuno 59 a 41. Tutta qui l’oscillazione dei pronostici. Che poi alle sette della sera si sono dimostrati tutti vicinissimi al risultato reale. Questione di decimali. Possibile che tutti noi redattori del Riformista siamo così attenti conoscitori della realtà del popolo a 5 Stelle, tanto da prevedere quasi al millimetro i rapporti di forza e le opinioni? È più probabile che semplicemente siamo dei discreti conoscitori del vertici dei 5 Stelle, in particolare di Grillo e Casaleggio. Che sono, in fondo, persone piuttosto semplici, non sofisticatissime, e quindi abbastanza prevedibili.

Diciamo la verità: quasi nessuno crede che i risultati della consultazione con la piattaforma Rousseau siano stati spontanei. Siamo un po’ tutti convinti che l’esito del voto fosse stato trattato l’altra sera dai due capi del Movimento 5 Stelle e decisi a tavolino. Né GrilloCasaleggio erano interessati a una roulette russa. In una situazione così delicata per il Movimento, affidarsi alla dittatura della sorte era troppo pericoloso. Grillo aveva bisogno di vincere il voto su Rousseau e dare il via libera a Draghi. Casaleggio – che è contrario all’ingresso nel governo Draghi – non poteva permettersi un clamoroso insuccesso. Meglio trattare e decidere un onorevole 59 a 41, giusto?

Poi può anche darsi che le cose non siano andate così, e che il voto ci sia stato davvero e sia stato libero, e solo per puro caso si sia concluso con le cifre che un po’ tutti prevedevano. Il problema è che nessuno ci crederà mai. Soprattutto perché nessuno può controllare la piattaforma Rousseau se non chi la gestisce, cioè Casaleggio, e quindi non ci sarà mai una prova della correttezza di questa operazione. Poco male. Se esiste un movimento che decide di affidare le proprie sorti a una ditta privata alla quale consegna risorse e cervelli e che delega a pensare e a decidere al proprio posto, e se poi questo movimento si presenta alle elezioni e ottiene più del 30 per cento dei voti, bisogna prenderne atto e basta. Non si può impedire alle persone di rinunciare ai propri diritti politici e nemmeno alla propria libertà.
E allora qual è il problema? Io vedo due problemi. Il primo riguarda il paese, il secondo riguarda la democrazia.

Il paese dopo le elezioni del 2018 è andato alla deriva. Ha rinunciato ad avere una classe dirigente e si è affidato a piccole bande che si univano o si scontravano seguendo logiche che non avevano nessun rapporto con la politica. Così è nato il governo di estrema destra Salvini-Di Maio (che ha tagliato fuori il centro liberale berlusconiano) e poi è nato il governo rosso-bruno (come dicono i politologi per definire le alleanze tra reazionari e progressisti) con il Pd che ha accettato di accodarsi in posizione subalterna ai 5 Stelle. Naturalmente questa disinvoltura politica ha prodotto una situazione di ingovernabilità e anche notevoli danni sociali ed economici. Aggravati per altro dalla pandemia, che ha aperto, oggettivamente, una crisi molto profonda che comunque qualunque governo avrebbe faticato a dominare. Ora la mossa del cavallo di Mattarella e Renzi, e cioè l’incarico di formare il governo a una personalità di alto livello, come quella di Mario Draghi, può in parte essere una soluzione e può frenare lo sbando. Ma non sarà una cosa semplice.

Perché a Draghi nessuno può dare un mandato in bianco, sarà in Parlamento che si combatteranno le battaglie politiche. E il Parlamento in questo momento è una bolgia dove piccole squadrette di 5 stelle o ex Cinque stelle o dissidenti 5 stelle si affrontano all’arma bianca e si fanno guerra fino all’ultimo sangue. Ed è proprio qui che nasce il secondo problema. Quello della democrazia. L’esperienza di questi tre anni ha provocato una caduta verticale del tasso di democraticità di questo paese. I Cinque Stelle hanno portato in tutte e due le alleanze (quella con il Pd e quella con la Lega) una forte dose di neo-autoritarismo. Che poi è la sostanza vera del populismo antico e moderno. Sia sul piano della tendenza a smantellare lo stato di diritto, sia su quello della lotta ai partiti, ai sindacati, al volontariato, all’associazionismo. E non hanno trovato molti oppositori.

Prima la Lega e poi il Pd hanno assunto una posizione subalterna e reverente nei confronti del partito di Grillo e Casaleggio. Rinunciando alla propria identità, alla propria autonomia, a buona parte della propria storia. Forse il Pd lo ha fatto più ancora della Lega. E il Pd non è un partito qualsiasi: è l’unico vero erede della Prima Repubblica, del miracolo italiano, della stagione dello sviluppo del paese e delle grandi conquiste sociali. Cos’è rimasto di quel partito. Ha disperso una immensa eredità politica, di sapere, di tradizioni. Un giorno bisognerà ragionare bene sulle responsabilità di questo sfacelo. Al quale non sono estranei gli intellettuali e in particolare la macchina dei mass media, interamente sottomessa ai nuovi vincitori.

Per ora però c’è una cosa più urgente da fare: provare a rimettere in moto la politica e a riaprire la battaglia politica. Anche quella tra destra e sinistra. Tra liberali e autoritari. Tra nazionalisti e europeisti. Non tocca certo a Draghi questo compito. Lui è stato chiamato per svolgere un altro ruolo. Rimettere ordine, riparare, rilanciare l’economia strapazzata per anni dal dominio dei moralisti e dei magistrati e dei burocrati. Non è lui che può ridare anima e linfa alla democrazia morente.

I partiti che ancora esistono si limiteranno a dire signorsì al premier, o approfitteranno di questo grande armistizio, per ritrovare voce e pensiero? Altrimenti lasciamo ancora campo libero ai comici, ai commedianti che sono riusciti a impancarsi a maestri di politica e di cultura e ancora non smettono. Però allora sarà davvero la rovina del paese. Non basterà Draghi ad evitarla.

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Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.