L’ennesima riforma della prescrizione ora approvata dal consiglio dei Ministri in forma di emendamenti al ddl governativo A.C. 2435 del marzo 2020 attualmente in discussione in Parlamento, introduce nel sistema penale due istituti diversi con una soluzione mista: metà di diritto sostanziale e metà di diritto processuale. Si dice a chi ha commesso reato: puoi ancora pensare di farla franca per il decorrere della prescrizione fino a una sentenza di primo grado. Dopo no. Dopo ci sono una serie di meccanismi processuali che consentiranno, ogni volta che lo si voglia davvero, di condurre in porto i processi che non devono prescriversi. E anzi il tuo processo lo si farà molto in fretta.

Questa soluzione ibrida, che prevede una prescrizione sostanziale e una processuale insieme (chiamata causa di improcedibilità dell’azione penale), è stata approvata così, in questa versione, per consentire l’attuazione dell’«altra parte» del pacchetto sulla giustizia penale, quella sulle riforme processuali e sanzionatorie ritenute in effetti più deflative. Senza l’introduzione di una riforma della prescrizione come quella adottata, tutto il disegno sarebbe stato bloccato da questo Parlamento, dove le forze pentastellate hanno numeri così determinanti e anzi si dichiarano in parte ancora insoddisfatte. Il compromesso realizzato attua dunque una Realpolitik, che presenta vantaggi e limiti che cercherò di spiegare.

Il nostro ordinamento, a differenza di quanto era previsto dal codice Zanardelli del 1889, e oggi da molti sistemi penali europei, aveva introdotto nel 1930, e ha tuttora, un istituto della prescrizione del reato che è di diritto sostanziale: la prescrizione del reato al posto della prescrizione dell’azione penale, o del processo. Il suo significato è che si pone una restrizione al potere di punire dello Stato; è lo Stato che si autolimita, assicurando al cittadino (non al “colpevole”, ma all’imputato) che la macchina punitiva non lo tenga “sotto scacco e minaccia” oltre certi termini temporali, definiti in ragione della gravità dei reati. La giustizia penale è umana e soprattutto sempre legata a ragioni di tutela spesso contingenti e di scopo, non assolute, e sa di doversi autolimitare per assicurare diritti fondamentali di vita, senza comprometterli per sempre, salvo che la gravità dei reati risulti impeditiva. In ogni caso l’ordinamento ha assicurato a lungo la celebrazione dei processi più importanti, senza produrre l’estinzione dei reati. Ma col tempo non è stato più così. Era (o è) una soluzione che ha alla fine fallito? Per nulla.

Non è la disciplina della prescrizione (art. 157 ss. c.p.) che ha fallito, ma sono tre i fattori del disastro: l’obbligatorietà dell’azione penale (bisogna perseguire ogni bagatella, fiat “iustitia” pereat mundus), l’inflazione dei reati (quelli previsti, oltre 6.000 fattispecie, e quelli commessi: anche se abbiamo uno dei numeri più bassi di omicidi dolosi al mondo, circa 300 all’anno, le denunce per furto, ad es., sono centinaia di migliaia, e solo in Cassazione, nell’ultimo collo dell’imbuto, ci sono in totale oltre 50.000 procedimenti all’anno) e la lentezza dei processi (i più lenti in Ue). Sui primi due fattori in Italia (a differenza di altri sistemi europei) si è ritenuto da tempo e dissennatamente di non dovere o potere intervenire. Non restava che il terzo.

La c.d. riforma Bonafede (l. 19 gennaio 2019, n. 3, in vigore dal 1 gennaio 2020, ma per i reati commessi da quel giorno in poi) ha lasciato formalmente in piedi la prescrizione sostanziale, introducendo tuttavia un meccanismo di “sospensione” della prescrizione illimitata dopo la sentenza di primo grado: lo Stato diceva al cittadino che intervenuta una prima sentenza si sarebbe arrivati comunque a conclusione del processo, anche dopo 50 anni. Pensata erroneamente col pregiudizio che i reati che si prescrivono successivamente al primo grado non li governa più il PM (prima invece in larga misura sì, attuando forme occulte di discrezionalità dell’azione penale), ma sono rimessi alle difese degli imputati più benestanti e meglio attrezzate per farli prescrivere (pregiudizio legato soprattutto a reati economici e contro la PA: spesso scoperti in ritardo e di difficile accertamento), quando invece gli effetti dei primi due fattori indicati e dei meccanismi del processo in sé (terzo fattore), non delle strategie difensive, si spiegano lungo tutto l’iter processuale producendo ritardi da accumulo, quella modifica era ed è, senza correttivi, in collisione col principio della ragionevole durata del processo. E infatti è nata monca di una riforma acceleratoria del processo che la fine anticipata del precedente governo ha lasciato in eredità all’attuale.

Occorreva dunque, per “salvare” (o completare) la riforma Bonafede, limitare la durata del processo (non volendo incidere sui primi due fattori indicati). Il pacchetto di norme sulla giustizia penale votato dal cdm provvede a questo obiettivo con una serie di interventi deflativi, ampiamente apprezzati anche se non risolutivi quanto alla riduzione dei tempi, e ponendo un vincolo temporale (2 anni + 1, salvo proroghe) alla possibilità di appelli e Cassazioni sine die che sulla carta erano resi possibili dalla riforma Bonafede. Si afferma così che viene attuata la Costituzione e la disciplina UE sulla durata ragionevole del processo, oltre a rispettare gli impegni assunti per ottenere i finanziamenti del Recovery Plan. In questa pubblicità governativa c’è peraltro un non detto, che la trasforma in una mezza verità.

La normativa approvata rende possibili successive riforme peggiorative della prescrizione ma retroattive, operando sulla parte processuale della disciplina. Essendo norma processuale quella che introduce l’improcedibilità dell’azione, essa è soggetta al principio tempus regit actum (si applica la legge processuale in vigore al tempo del processo, anche se i fatti commessi sono precedenti), e quando si dovesse vedere che il sistema continua a non reggere l’impatto dei giudizi pendenti, si potrà allungare ancora di un anno o due la prescrizione anche rispetto a fatti commessi prima. Ciò che non sarebbe mai possibile per la parte sostanziale della prescrizione, soggetta ai limiti dell’art. 25 cpv. Cost. A meno che la Corte costituzionale non individui (ma è una partita aperta) limiti alla irretroattività di riforme processuali in malam partem, ritenendole ex post facto laws (leggi retroattive incostituzionali se costruite a bella posta dopo la commissione dei fatti), come del resto già avviene negli USA. Non solo.

Le riforme in peius potranno avvenire anche solo con provvedimento giudiziale, in considerazione della ritenuta (ex post) complessità degli accertamenti di determinati reati (un novero sempre ampliabile), perché la riforma approvata lo prevede espressamente in aggiunta a un allungamento di default per quei reati. Un esito eclatante della riforma. Si deve infatti ricordare che la Corte costituzionale ha fatto barricate per evitare che la Corte di Giustizia UE imponesse ai giudici nazionali di modificare la prescrizione in peius in corso di partita (è la vicenda Taricco, dove la Corte ha solennemente affermato nel 2018 che l’art. 25 cpv. Cost. impone una concezione sostanziale della prescrizione). Ora ciò diventerebbe prassi quotidiana, anche se per un numero predefinito, ma sempre aumentabile di incriminazioni. Ma non basta.

La prescrizione, in Italia, è a geografia variabile. Solo alcune Corti d’Appello sono davvero disastrate nei tempi di celebrazione dei reati. Questa riforma crea invece una disciplina uguale, e con le ricordate possibilità di un aumento retroattivo dei tempi (che sarebbero incostituzionali per la parte della prescrizione sostanziale, ma che ora, col gioco delle tre carte, diventano possibili per quella processuale), per situazioni molto differenti: è solo in alcuni distretti che il limite dei tre anni salvo proroghe può risultare insufficiente, mentre in molti altri il problema non si pone (come nel resto d’Europa). Perché l’intero territorio nazionale dovrebbe soggiacere a una disciplina pensata per risolvere i problemi soprattutto di alcune realtà giudiziarie?

Invece di operare con riforme ordinamentali e organizzative, mantenendo un istituto ispirato ai limiti del potere punitivo (la vecchia prescrizione sostanziale, già estesa dalla riforma Orlando del 2017-2018, ma poi abolita dalla riforma Bonafede), si è dunque allargato il potere punitivo, facendo della prescrizione un istituto acceleratorio del processo, che ormai mette in secondo piano le garanzie dell’art. 25 cpv. Cost., perché lascia intravedere che il futuro sarà tutto giocato sulla ormai dominante processualizzazione della prescrizione e sui limiti tutti da inventare alla sua retroattività in malam partem, sia legale e sia giudiziale.

Credo che le forze politiche pentastellate non possano davvero ritenere una sconfitta politica (dal loro punto di vista) questa riforma che si avvia a realizzare gli effetti qui descritti. Compito della Corte costituzionale, invece, sarà di chiarire in quale misura l’art. 25 cpv. Cost. ponga vincoli di garanzia contro riforme processuali retroattive, ma sostanzialmente punitive.