È una partita unica, in due tempi, presidenze di Camera e Senato e squadra di governo. Ma l’accordo finale, curato col bilancino delle contropartite reciproche, è saltato di nuovo ieri sera alle 19 quando Meloni e La Russa, che avevano già raggiunto intono alle 17 Villa Grande, la residenza romana di Berlusconi, tornano alla Camera dopo un litigio furibondo con il Cavaliere. «Adesso rimetto in gioco tutto», ha detto sbattendo la porta la presidente di Fratelli d’Italia.

A quel punto anche Salvini, che aveva finito il Consiglio federale e si era intrattenuto un’ora con Giorgetti per studiare alcuni dossier, ha lasciato il palazzo dei gruppi di Montecitorio con un laconico: “Vado dalla mia fidanzata”. La notte è lunga. Ma sembra difficile che entro stamani si possa nuovamente ritrovare un filo conduttore per eleggere i due presidenti di Camera e Senato e chiudere il puzzle della squadra di governo. È il peggior inizio che Meloni potesse augurarsi. Non un buon viatico per l’avvio della legislatura. La prova evidente che nella coalizione dei più forti nessuno si fida di nessuno. E non sono retroscena dei giornali. Ieri è stato messo tutto plasticamente in piazza. Il problema stavolta non sarebbero Salvini e la Lega ma il Cavaliere con le sue “pretese” circa il ruolo di Licia Ronzulli e il dicastero della Giustizia. Anche la Lega ha le sue pretese e nelle scorse settimane entrambe le hanno messe quotidianamente sul tavolo. Del resto Meloni avrà pure la maggioranza con il 26% dei voti ma senza i due soci non ha la maggioranza.

Eppure fino alle 19 sembrava che il puzzle avesse trovato tutti i suoi pezzi. Dopo tre settimane di tentativi, bilancino alla mano, vari stop and go e limature, la giornata era stata segnata da dichiarazioni piene di ottimismo. “Saremo veloci e lavoreremo bene” ha ripetuto Meloni ogni giorno di queste lunghissime tre settimane tra il 26 settembre e ieri pomeriggio, l’inizio ufficiale della XIX legislatura. Un tempo che è sembrato ancora più dilatato e quindi inutile visto il risultato assai netto delle urne. Un tempo dettato dalle regole costituzionali e non dalle tensioni, che pure ci sono state e continuano ad esserci, tra i soci della maggioranza di destra-centro. «Ho pronta un’offerta generosa, sono ottimista, di sicuro non possiamo perdere tempo in una situazione generale complicata come quella attuale», ha detto la presidente di Fratelli d’Italia ieri entrando intorno all’ora di pranzo nel palazzo dei gruppi parlamentari della Camera. Ieri sera è tornato tutto in alto mare, a cominciare dalle presidenze delle due camere.

Il primo tempo dell’accordo saltato prevedeva l’elezione di Ignazio La Russa alla guida del Senato. L’ex colonnello, ai tempi di An, con Fini e Gasparri. Il regolamento del Senato prevede che si proceda con votazione a maggioranza semplice fin dalla prima votazione e già stasera quel primo tempo doveva essere chiuso per essere completato domani con l’elezione di Riccardo Molinari alla presidenza della Camera. L’ ex capogruppo della Lega alla Camera, avvocato quarantenne di Alessandria, vecchia scuola padana (la prima tessera appena ventenne), esperto e stimato anche dalle altre forze politiche, buon oratore e personalità inclusiva, non divisiva, lontano da eccessi. Salvini ha provato a un certo punto a mandare avanti il suo gemello diverso, Nicola Molteni, suo braccio destro al Viminale. Ma l’accordo è stato chiuso e blindato su Molinari anche in risposta alla notizia per cui il 24 settembre, giorno prima del voto, la procura di Torino lo ha rinviato a giudizio per un esposto dei Radicali per una faccenda di un candidato escluso dalle liste delle elezioni comunali di Moncalieri (2020). Giusto per capire l’approccio totalmente garantista che questa maggioranza avrà sulla giustizia. «Finire indagati per questo tipo di reati non può in alcun modo condizionare le scelte politiche di un partito», spiegava ieri una fonte della Lega.

Anche la scelta di La Russa al Senato risponderebbe ad alcune contropartite interne: il fondatore di Fratelli d’Italia (con Crosetto, Rampelli e Meloni) aveva posto i suoi desiderata sul ministero della Difesa (dove era già stato nel governo Berlusconi del 2008). Meloni ha preferito tenere libera quella casella e lo ha spinto a prendere in considerazione la seconda carica dello Stato: essere il vice di Mattarella è un ruolo cruciale per la legislatura; essere il numero 1 del Senato è cruciale per la tenuta della maggioranza che, come sempre, avrà a palazzo Madama il suo punto debole. Insomma, un ruolo strategico che non a caso la Lega aveva chiesto per Roberto Calderoli, l’uomo dei regolamenti, capace in ugual modo e in modo assolutamente legittimo di bloccare i lavori d’aula o di farla lavorare in modo assai spedito. Meloni non ha voluto dare a Salvini questo vantaggio che in cambio ha chiesto più ministeri. E molti di peso.

Prima che saltasse tutto, il puzzle vedeva la Lega titolare di ben cinque ministeri. Salvini ha rinunciato al Viminale in cambio del tecnico d’area, il prefetto Matteo Piantedosi, che è stato capo di gabinetto quando Salvini era ministro ai tempi del Conte 1. Facendo il punto nel Consiglio federale convocato alle 16 alla Camera, il segretario aveva tirato le fila dell’accordo quadro. Salvini sarebbe andato alle Infrastrutture con Rixi viceministro. Gianmarco Centinaio all’Agricoltura, Lorenzo Fontana alle Disabilità e Erika Stefani agli Affari regionali- Autonomia, un dicastero centrale per la Lega. Un ottimo accordo con una precisazione: «Se Meloni vuole Giorgetti al Ministero dell’economia e finanze, siano onorati e orgogliosi di questa scelta e di questa responsabilità. Ma sia chiaro che la casella non va messa in conto alla Lega». Come dire: è una scelta di Meloni, il Mef non può essere contato “come ministero di peso della Lega”. E questo la dice lunga sui rapporti interni al Carroccio.

I desiderata di Berlusconi sono quelli che avrebbero fatto saltare tutti i pezzi del puzzle. Tutti d’accordo su Antonio Tajani alla Farnesina, c’è un problema alla Giustizia: il Cavaliere vorrebbe l’ex presidente Casellati mentre Meloni avrebbe dato il suo benestare a Francesco Paolo Sisto, avvocato di fiducia del Cavaliere, già sottosegretario di Marta Cartabia e quindi in grado di portare avanti i dossier delle varie riforme senza perdere tempo con insediamenti e passaggi di consegne. Il problema mai risolto è quello del ministero per Licia Ronzulli per la cui causa Berlusconi avrebbe sollecitato più volte ed ogni giorno la stessa Meloni. Il braccio destro del Cavaliere aveva puntato sulla Sanità o sull’Istruzione. Sbarrate entrambe le strade, alla fine è spuntato fuori il Turismo accorpato allo Sport. Ma Fratelli d’Italia avrebbe posto il veto su entrambi. Non solo: al Turismo è spuntato fuori il nome di Daniela Santanchè.

Apriti cielo: a Villa Grande hanno gridato anche i muri. Anche perché, a forza di desiderata dei cosiddetti alleati, a Fratelli d’Italia restano ministeri importanti ma sottostimati rispetto alla schiacciante vittoria. Tutto da rifare? È un fatto che in serata torna in pista anche la presidenza del Senato a Calderoli. «Tenete i cellulari aperti, la notte porta consiglio», ha detto Salvini ai suoi. «In fondo per i ministri c’è ancora tempo, almeno una settimana», ha tagliato corto Giorgetti col solito fare sornione. Stamani (ore 9) sarà la senatrice a vita Liliana Segre, 92 anni, sopravvissuta all’Olocausto a presiedere la seduta inaugurale della legislatura e della Camera alta. Il suo ultimo discorso pubblico risale al 2020. E sarà certamente il momento più alto ed emozionante della giornata.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.